
C’era una volta… il Macbeth di Polanski
December 17, 2019L’annata che conclude il decennio vede uscire in sala due film molto importanti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro: Once upon a Time… in Hollywood di Quentin Tarantino e J’accuse di Roman Polanski. Da un lato un regista che ha raggiunto la popolarità nello stesso decennio in cui Hobsbawm parlava di “secolo breve”, un regista che, raggiunti ormai i sessant’anni, ha sentito il bisogno di ricostruire il passato della sua infanzia, rimodellandolo in un’ucronia cinematografica che si impossessa e si vendica della Storia degli anni sessanta; dall’altro un gigante del ‘900 ormai vicino alla quota dei novant’anni, che torna ancora di più a ritroso nel tempo fino al secolo di poco precedente, agli albori del cinema, mettendo in scena realisticamente uno degli eventi che più hanno segnato la storia di Francia e poi quella mondiale di quel ‘900 in cui lui e Tarantino sono nati, a distanza di trent’anni l’uno dall’altro, e infine gettando lo sguardo nella memoria di quei fogli che sarebbero diventati le prove di un evento che avrebbe portato alla prima futura follia del secolo successivo: la prima guerra mondiale.
Tarantino non avrebbe voluto che Roman Polanski finisse a girare il suo adattamento del Macbeth due anni dopo gli eventi di Cielo Drive, come Polanski stesso non avrebbe probabilmente mai voluto finire nel 2019 a fare un film sull’affare Dreyfus, usando i fatti storici per raccontarsi e per raccontarci, per riflettere sugli infiniti fiumi d’inchiostro che si sprecherebbero nell’elencare le possibili strade che la Storia mondiale e la vita travagliata del suo regista avrebbero potuto prendere, in un gioco perverso di “what if, then what” in cui non possiamo perderci ulteriormente, ma sul quale era necessario fare una “breve” premessa per andare a parlare di un film come The tragedy of Macbeth.
Non semplicemente Macbeth, come nel precedente adattamento del ’48 di Orson Welles, e nemmeno come gli adattamenti di Riccardo III, Amleto o Enrico IV di Laurence Olivier, ma “la tragedia del Macbeth” come una insistita e voluta enfasi nel sottolineare lo stretto legame tra il titolo originale dell’opera di Shakespeare e la tragedia che si sarebbe consumata in quella calda estate del ’69 nella villa losangelina in cui viveva Roman Polanski, “the hottest director in town”, come direbbe l’immaginario vicino di casa Rick Dalton all’inizio del film di Tarantino. Perché The tragedy of Macbeth diventa una spietata elaborazione del terrore che si discosta dalle follie kitsch e avanguardiste di Welles da un lato, e dalla rivisitazione in chiave No nell’adattamento di Kurosawa del ’57 e le supera, facendo esplodere l’opera di Shakespeare in una doccia hitchcockiana di immagini violente ed efferate, schermando nella mente della spettatore un’escalation di perturbante follia che solo chi aveva provato così da vicino l’orrore della realtà, come Polanski, prima coi nazisti e poi a Cielo Drive, poteva mettere in scena con tale profondità di sguardo le fantasie immaginate dalla penna del drammaturgo inglese due secoli prima.
A distanza di quasi cinquant’anni colpisce ancora la grandiosità di una messa in scena in cui onirismo e realismo si sposano armonicamente in un’oscura disamina dei demoni che prendono forma nell’inconscio di Macbeth e della sua regina, i loro pensieri in voice-over ci accompagnano fino all’annullamento fisico a cui è destinato il loro rapporto (tema già affrontato nelle opere del decennio precedente). Come negli appartamenti di Repulsion e Rosemary’s baby (e successivamente anche in The Tenant, Bitter moon e Carnage), o come nella barca di Il coltello nell’acqua, Polanski riversa negli spazi chiusi del castello di Macbeth la sua ossessione claustrofobica con cui imprigionare la corruzione morale e fisica di cui rimangono vittime i suoi personaggi. Da questa tragedia senza uscita rimangono solo corpi senza vita, rimasti accasciati e inermi per corridoi e stanze che hanno perso qualsiasi parvenza di familiarità. Una fuga verso l’esterno è negata, ma è nel fuori campo degli omicidi interni al castello che si progetta un piano per uccidere l’usurpatore al trono, ed è qui che Polanski opta per un ricercato naturalismo nei paesaggi della Gran Bretagna con cui si alternare le derive inconsce della tragedia: colline verdi desaturate, valli paludose, foreste opprimenti e spiagge fangose che si avvalorano del suggestivo contributo di Gil Taylor, storico direttore della fotografia, maestro di luci e ombre che qui vengono fatte esplodere in un cromatismo psichedelico e crepuscolare. Ampi e ristretti, all’aperto e al chiuso, gli spazi ingannano sé stessi fino a fagocitarsi in un perverso gioco di specchi costruito a scatole cinesi, come dimostra una irresistibile sequenza onirica di indubbia modernità, nella quale Macbeth scopre la verità che lo attende con la precipitosità incontrollata innescatasi dall’assunzione di una sostanza magica accostabile all’effetto stordente di una droga dell’epoca.
Ed è infatti l’epoca degli anni settanta cui la tragedia del Macbeth/Polanski si affaccia, quegli anni incapaci di fare i conti con la violenza del decennio precedente, con quell’innocenza deturpata in quell’ultima estate di Cielo Drive; anni che avrebbero accentuato il sintomo di una corruzione dilagante, di una nazione e di un mondo alla deriva di acque incerte, quelle acque che avrebbero poi mosso le indagini di quell’altro grande capolavoro degli anni settanta che è Chinatown, con il quale Polanski ritorna a raccontare l’America nelle calde atmosfere degli anni trenta dopo le gelide e spettrali visioni di una Scozia medievale sovraccarica di bile. Infine, il suo Macbeth è un film chiave degli anni ’70, non solo per la dirompenza visiva con cui Polanski riscrive la materia shakespeariana sulla propria esperienza traumatica; non solo l’incandescenza della fotografia di Gil Taylor che colora le vicende con i suoi tagli di luce acidi e fiammeggianti; ma anche per il necessario contributo sonoro della Third Ear Band, con il quale si sposa alla perfezione una collaborazione decisiva nel porre la tragedia di Macbeth allo stesso livello di colossi del cinema psichedelico del decennio come El Topo, The Holy Mountain, Suspiria, A clockwork orange, The Exorcist e altri. La prima inquadratura sulla spiaggia desolata si apre con lo stridore di violoncelli e violini impazziti, cui si aggiungono oboe e percussioni, fino a comporre una partitura sonora eterogenea e imprevidibile, religiosa nella sua ecumenica ricerca di atmosfere etniche e folk sempre più sfaccettate. All’epoca, dopo solo due album con il quale si imposero alla scena musicale, i Third Ear Band confermarono con successo l’esperimento rischioso di voler far sposare la loro inedita sperimentazione con il progetto cinematografico. Tutto si incastrò alla perfezione, e dalle ceneri di una storia nacque un film affascinante, elettrizzante, con il quale Polanski riuscì a elaborare ulteriormente un estro artistico e un pensiero cinematografico che ancora oggi fanno scuola.
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