
Midsommar, l’orrore oltre l’estetica
January 30, 2020Ari Aster è un esteta, un regista con una concezione di cinema ossessivamente geometrica, che porta la mente a fare paragoni inopportuni in cui Midsommar diventa una sorta di Shining moderno, come se la natura rigogliosa della sua Svezia estiva fosse stata dissetata dalla neve sciolta nei dintorni dell’Overlook.
Si riconosce il modus operandi di uno che il cinema l’ha prima di tutto studiato, non lasciando nulla al caso, all’improvvisazione, ingabbiando un estro che sarebbe troppo pericoloso da far girare libero. Le inquadrature studiate al millimetro per contenerlo, pensate come fogli sovrapposti, dove il primo lascia intravedere sempre quello che c’è sotto, in un gioco di trasparenze incredibilmente sensuale ma controllato. Così l’inquadratura di un arazzo nasce come momento di bellezza artistica, rivelandosi poi un’angosciante suggestione, infine una vera e propria anticipazione sui destini dei protagonisti. La stessa estate perenne che riscalda la comunità degli Hårga, avvolgendola in un’atmosfera fiabesco-hippie, pacifica e rassicurante è solo un profumo che nasconde l’insopportabile tanfo della follia e della morte.
Aster gioca con l’essenza della bellezza, la superficialità. Ad un primo sguardo è tutto perfetto, idilliaco, i prati verdi, il cielo azzurro, l’eccitazione da sagra di paese, i canti e i balli di una comunità in festa, estremamente folkloristica.
Il regista però indugia sulle sue scene, le fa decantare con inquadrature insistite, zoom-in e zoom-out lentissimi, costringe ad osservarne i dettagli, ad assorbirli fino a contaminare il cervello con un dubbio tanto scontato quanto penetrante.
Per concentrarsi su questo tipo di lavoro, in cui l’esaltazione dell’immagine e la sua composizione fotografica sono tutto, l’impressione è che la banale linea narrativa di fondo (studenti americani che visitano un paese straniero morendo uno dopo l’altro nel peggiore dei modi) sia una comfort zone fondamentale per non sovraccaricare le percezioni dello spettatore e il lavoro di Aster, lasciando libera l’allegoria di insinuarsi nel subliminale. Quella che Midsommar vuole davvero raccontare è la storia di un amore spento, giunto allo stato di dipendenza, quella di Dani (una strepitosa Florence Pugh) per Christian (un impalpabile Jack Raynor), che cerca solo il momento giusto per troncare la relazione, diventando però unico salvagente nella tempesta di dolore che investe la ragazza a inizio pellicola. La scena che racconta l’omicidio dei genitori per mano della sorella, preda di un gravissimo stato di depressione, a sua volta suicidatasi con gli stessi gas di scarico, è qualcosa di clamoroso. Nonostante tutto sia già avvenuto quando Aster ci porta sul luogo, accompagnando i pompieri, si respira una tensione soverchiante, pesantissima.
Una tragedia sensoriale che mescola la puzza del gas, i lampeggianti rossi nel buio e una serie di violini stonati, dissonanti, disperati. L’immobilità, l’assenza di vita che si osserva in questa sequenza è uno dei momenti horror più devastanti degli ultimi anni, seguita dal pianto straziante della Pugh, che graffia i timpani e trasporta in uno stato di angoscia totale, ancora più marcato dal volto di Raynor (che convince appieno solo in questi primi minuti). Nonostante l’abbraccio di conforto sembra rammaricarsi di aver perso l’occasione di lasciarla prima, come se ora fosse definitivamente ostaggio dell’amore, obbligato a starle accanto, mentre la camera fissa procede in zoom verso la finestra sopra di loro, fuori la neve, ai lati due quadri ammiccanti e simbolici (quello che sembra un ciclo lunare e una donna gigantesca e grottesca che sembra travolgere altre persone).
Ed è proprio questo il pesantissimo bagaglio emotivo che si porteranno dietro in Svezia, iniziando un percorso di separazione, indipendenza ed elaborazione del lutto in cui l’assoluta protagonista è Dani. Tutto quello che accade è in sua funzione, è lei il centro del Midsommar, il fine ultimo di tutti i rituali della cultura Hårga, diretti e coreografati con una mano da maestro e un gusto strepitoso, ritornando a un concetto di bellezza che già da solo varrebbe la visione della pellicola.
È però quando indugia su certi dialoghi e sottotrame a fondo cieco che l’opera perde il filo e fa pesare i suoi 147’ (171’ per la director’s cut), fermando di colpo un ritmo già di per sé rilassato (mai rilassante) ma fluido e distogliendo i sensi dalla bellezza e dalle suggestioni. Momenti in cui le radici da horror classico escono dal terreno, nodose e disarmoniche, disturbando l’armonia di un albero imponente. Si nota ancora un pizzico di immaturità e insicurezza forse, cosa abbastanza stupefacente per uno che sa raccontare per immagini con questa eleganza, trasmettendo sensazioni violentissime. Il sole sempre alto, la notte che in quei particolari giorni non cala mai, quasi a voler abbagliare, confondere, mettere in una condizione di disagio e inferiorità, quella di un brutto trip da acido dove anche i boschi sembrano essere vivi. Proviamo la stessa allucinazione di personaggi perennemente sotto effetto di sostanze psicotrope (consapevoli o meno), le percezioni alterate da movimenti di camera ipnotici e dalla post-produzione, il sorriso ebete davanti a situazioni tanto orribili quanto grottesche, surreali, come certe morti o rituali quasi slapstick. Una sospensione tra commedia e dramma da geniale mixologist del cinema.
Non si può biasimare totalmente chi in Midsommar vede una scatola vuota, uno scrigno intarsiato, scintillante ma privo di contenuto, perché quello che arriva subito allo spettatore è qualcosa di appariscente, che sembra volersi mettere in mostra, ma Aster si fida che il suo pubblico riesca ad andare oltre. Come osservare le usanze di un’altra cultura per poi scavare nelle loro origini e significati, piuttosto che archiviarle come una buffa rievocazione d’altri tempi.
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