
Capone di Josh Trank, la palude come condizione mentale
May 25, 2020DUE FILM E MEZZO
Talento e gloria non vanno a braccetto, ne sa qualcosa Josh Trank, il regista più stritolato dai meccanismi hollywoodiani che l’ultima decade ricordi. Dopo un esordio straordinario (Chronicle, 2012), arriva poi la mazzata capace di far finire nel dimenticatoio chiunque, Fantastic Four, considerato il peggior film supereroistico della storia recente nonché sinonimo di flop produttivo e commerciale. Come ci si riprende e come si può far ripartire la propria carriera quando di colpo si diventa il filmmaker più odiato al mondo? Chi è disposto a finanziare una persona la cui reputazione è tanto brutta quanto l’ultimo titolo che ha (parzialmente) diretto e del cui fallimento è stata imputata? Che fiducia si può dare a un uomo che è stato descritto dalla troupe come tirannico, violento, paranoico, folle?
Ogni tanto il destino è benevolo. Contro ogni previsione, nel 2017 si annuncia che Josh Trank è al lavoro su un biopic (Fonzo) incentrato sull’ultimo anno vissuto da Al Capone. Gioisce chi ha amato Chronicle ed è rimasto oltremodo perplesso per tutto l’affaire Fantastic Four, ma in fondo più che di gioia si tratta di voler capire se quel primo lungometraggio è uscito per caso così bene o se il giovane cineasta è un genio.

Cameo di Josh Trank, regista di “Capone”
Fonzo è il compromesso con cui si sacrifica il working title in favore di uno definitivo più facilmente ricordabile dalle persone: viene quindi scelto il cognome del gangster protagonista. Capone può essere definito come il secondo autentico film di Josh Trank. Fine della storia. Fantastic Four non è suo se non in minima parte, benché sia accreditato come regista anche nella versione definitiva e rimaneggiata per oltre il 50% da altri (la Fox doveva pur incolpare qualcuno della monnezza immonda uscita fuori). Dai tempi di Chronicle son passati alcuni anni e poi ha pesato molto la disavventura legata alla gestazione del film numero due, pertanto è diversa anche la modalità d’approccio a un nuovo progetto, ma a ben vedere non i temi. Chronicle è un’opera viva, Capone un’esperienza di morte. L’uno ha per protagonista un ragazzo con di fronte a sé tutta la vita, l’altro un uomo morente. Il trait d’union è il tema della malattia, del cambiamento, della perdita, che è centrale in tutti e due i casi.
LA PALUDE COME CONDIZIONE MENTALE
Palm Island, Florida, nel 1946. Lontano da ogni forma di civiltà urbanizzata, dal caos metropolitano, dal gioco d’azzardo, dall’alcol, dalle belle donne, dalla criminalità, dal carcere, un ormai sifilitico Al Capone -tutti però lo chiamano Fonse, dal suo vero nome, Alphonse, perché c’è il divieto assoluto di utilizzare il famigerato cognome- trascorre le giornate a far nulla all’interno della sua lussuosa villa: ascolta la radio, partecipa a pranzi e cene senza riconoscere nessuno, fuma sigari in continuazione, mangia tagliatelle al sugo, cerca di ricordare dove ha nascosto un tesoretto da dieci milioni di dollari. Benché solo quarantasettenne, il fuorilegge è arrivato alla fine della sua esistenza perché la sifilide l’ha menomato nel corpo e nella psiche fino a un punto di non ritorno.
In Capone l’unica traccia del passato da criminale o dell’infanzia trascorsa in assoluta povertà senza cibo e con solo ratti per amici è nei ricordi dello stesso Al o dei suoi famigliari. Ricordi che spesso si contraddicono gli uni con gli altri, accatastandosi e mischiandosi senza la possibilità di offrire fatti sorretti da una veridicità storica. Il film e il suo protagonista finiscono col diventare la stessa cosa: una polpa mnemonica, un’allucinazione costante saldamente ancorata a un corpo malato.
La manifestazione più evidente del non stare fisicamente bene, al di là degli scatti d’ira, è data dall’incapacità di trattenere le proprie feci. Capone si caga addosso in qualsiasi occasione: a letto con sua moglie, a tavola con i parenti, persino mentre l’FBI lo interroga. È diventato un essere scatologico, una deiezione vivente senza coscienza. In atto c’è molto più che una regressione allo stato infantile. Uno così può solo peggiorare, mai migliorare.
Via via, il protagonista perde l’uso della parola, inizia a gracchiare come un corvo invece che articolare frasi di senso compiuto, perde tutti i punti di riferimento, vede nemici che in realtà non ci sono, arriva a non riconoscere neanche più la moglie o la madre, addirittura telefona e chiede aiuto alla polizia (proprio lui!) perché crede di essere stato sequestrato senza però saper dire dove si trovi o chi l’abbia rapito.
In mezzo ai deliri riemerge però un evento sepolto troppo a lungo: l’abbandono di un figlio ora cresciuto e diventato adulto. È qualcosa di cui nessuno sa nulla e di cui Fonse ha taciuto per decenni. Bisogna crederci? Anch’essa è un’allucinazione?
Capone è un film dall’anima wellesiana, parla del tempo come di una forza indomabile che si abbatte sulle vite, scorrendo e portando via con sé ogni cosa. Come Quarto potere o L’orgoglio degli Amberson, il cinema di Josh Trank -sono pochissimi titoli, sì, ma abbastanza per dare un’idea delle sue ossessioni ricorrenti– tratta di vicende di creazione e invecchiamento, di ascesa e di crollo, di costruzione d’imperi della cui caduta poi si diventa passivi osservatori impossibilitati a fare alcunché, di ricchezze accumulate e di denaro perduto, di debiti e di sensi di colpa, di memoria ancestrale e di gesta romanzate.
OVER THE RAINBOW
Nel lungometraggio di Josh Trank, una delle scene madri è costituita da Al Capone che, comodamente seduto nella sua saletta privata, guarda Il mago di Oz, più precisamente quando Zeke, il leone codardo che ha paura di tutto, sta intonando la sua canzone. Capone canta con lui, si alza in piedi, si avvicina allo schermo, si confonde con la pellicola proiettata, ma è chiaro che ci sia qualcosa che non va nella sua testa perché la mancanza di lucidità ha raggiunto il punto tale per cui verità e finzione sono ormai diventate la stessa cosa indistinta. Non solo deliri, non solo allucinazioni, bensì una percezione gelatinosa di ogni cosa, tangibile o frutto di fantasia. Quello che sta accadendo è immaginato o è la realtà? Con la vestaglia addosso, lo sguardo perso nel vuoto, le parole sbiascicate, Capone farebbe meglio a essere ricoverato in una qualche struttura ospedaliera e osservato a vista. Del pericoloso e machiavellico delinquente non è rimasto nulla se non un fantasma di se stesso.
Qualcuno ha detto che a decretare la morte del gangster-movie classico sia stato Martin Scorsese col suo testamentario The Irishman, ma non è così e adesso lo sappiamo. L’ha fatto Josh Trank con Capone. In attesa della prossima resurrezione.
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