
The Blair Witch Project, riscoprendo il fascino dell’ignoto
August 4, 2020Ricordo quasi nitidamente le prime campagne pubblicitarie di The Blair Witch Project. Spiattellate su qualche stampa generica o con qualche trailer veloce di televisione. Internet era alle primissime armi e fu uno strumento cardine per decretare l’interesse e il successo del film.
Prendendo ispirazione dal Cannibal Holocaust di Deodato, i due filmaker Daniel Myrick ed Eduardo Sànchez proposero questo progetto estremamente amatoriale, venduto alla stregua di un vero e proprio ritrovamento di alcuni nastri nel bosco che loro hanno rimontato. Non pochi anni prima cominciarono a girare le prime leggende metropolitane sulla strega di Blair associate al massacro di bambini eseguito da Rustin Parr.
Su internet cominciarono a circolare voci: The Blair Witch Project non era un film, bensì la vera ricostruzione degli eventi che hanno portato alla scomparsa dei tre ragazzi protagonisti, che nel film interpretano proprio loro stessi e che, sempre grazie ad un abile marketing, sparirono nei mesi prima e dopo il lancio del film, incalzando a scriverne a riguardo quando numerosi giornalisti cercavano di chiamarli al telefono, senza mai avere risposte: che fosse tutto successo per davvero?
Costato praticamente nulla, nessun effetto speciale e arrivando a incassare ben 200 milioni di dollari (parliamo sempre del 1999/2000, una cifra già oggi molto grande per un film a basso budget, figurarsi all’epoca), The Blair Witch Project ha poi gettato la maschera – sì è tutto un film, tranquilli – ma riuscì a far riscoprire a ognuno di noi una delle semplicistiche paure più datate dell’uomo: l’ignoto.

Fissare un punto vuoto, non vedere nulla, ma avere la consapevolezza che lì possa davvero trovarsi qualcosa. The Blair Witch Project non mostrava nulla, non si precludeva mai la possibilità di farci vedere concretamente cosa potesse essere questa strega di Blair o cosa facesse alle sue vittime. Specialmente quando il primo ragazzo scompare, non vediamo nulla, dei resti umani, forse un dito, una lingua e un paio di denti, accuratamente depositato fuori la tenda dei ragazzi superstiti, come un dono di benvenuto, a suggellare la paura di essere rimasti intrappolati nella foresta.
Camminare per ore e ore nella foresta e non uscirne più, entrare letteralmente in una dimensione alternativa che assume le sembianze di un macabro gioco che la strega infligge sui i poveri malcapitati, prima di “prenderli”.
Nel 2016 Adam Wingard provò a rilanciare il franchise con un film che annientava il terribile secondo capitolo (Blair Witch 2: Il libro segreto delle streghe) per ricollegarsi alle vicende del primo, ancora con un mockumentary e un collegamento diretto di parentela che giustifica l’addentrarsi nuovamente nella foresta della strega di Blair. Ne avevamo già parlato qui, lodando l’idea della memoria filmica, meno la resa finale che si divertiva con le tecnologie a mostrare più concretamente mostri, strega o chiunque sia, riducendo il prodotto ad un mero film horror come tanti altri.
The Blair Witch Project invece ancora oggi riesce ad affascinare proprio nella forse involontaria messa in scena di questo piccolo timore sopito in ognuno di noi. L’incredibile resa amatoriale è qualcosa assieme alla pellicola sgranata e le telecamere a nastro, restituiscono un’aderenza alla realtà senza pari. Guardatelo in originale e sentirete i protagonisti bestemmiare apertamente e senza filtri, trasformate in parolacce negli adattamenti nel resto del mondo. Ad ogni imprecazione, è un passo in più verso la follia, tra il pianto disperato e la risata isterica. Noi stessi come i protagonisti non vediamo nulla, rintanati dentro una tenda ad ascoltare i sinistri rumori provenienti da fuori per poi trovarci pietre disposte in gruppo e bastoncini legati a rappresentare ormai l’iconico segno della strega di Blair. Siete nel suo territorio ora, l’oscurità rimarrà tale, ma la consapevolezza che lì ci sia qualcosa è sempre più concreta.
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