
Le giornate del Cinema Muto 2020 tra USA, Cina e Chinatown
October 8, 2020 0 By Simone TarditiIl lungometraggio che ha aperto le 39me Giornate del Cinema Muto è stato Penrod and Sam (William Beaudine, 1923), parzialmente tratto da un romanzo di Booth Tarkington, già autore di L’orgoglio degli Amberson, opera di tutt’altro impianto. Prodotto dalla First International e recente oggetto di restauro da parte della Library of Congress, Penrod and Sam (il catalogo del festival lo definisce un perfetto esempio di “Americana”) tratta di bambini che giocano a fare i grandi, di lentiggini e vestiti sporchi di fango, di spade create con pezzi di staccionata e scudi fatti con i coperchi dei bidoni. Bianchi, afroamericani e un cagnolino. La vita da adulti è quella che li aspetta, ma senza fretta. Non un film memorabile e, soprattutto nella prima metà, poco più di una comica allungata. Migliora nella parte successiva quando il trauma di una morte porta con sé la maturità. L’adolescenza si spezza e in prospettiva lascia spazio a qualcos’altro.
Passiamo in contesti asiatici. Precedentemente presentato sempre a Pordenone in un’edizione degli anni ’90, il cinese Guofeng (Luo Mingyou e Zhu Shilin, 1935) è una pellicola ibrida: incipit e conclusione portano con sé, neanche tanto sottilmente, i toni della propaganda (rivoluzione, emancipazione femminile, comunismo, …) mentre la lunga parte centrale si concentra sul melodrammone sentimentale: due donne innamorate dello stesso uomo, avvicinamenti, amori, scontri. Sotto il racconto pare nascondersi però un tipo di cinema “illustrativo” su come si deva, o almeno si dovrebbe, svolgere la vita, i passi da fare affinché essa possa dirsi completa, la costruzione di un futuro e via discorrendo. Insomma, alla lunga tutto ciò diventa elemento ingombrante, anche se è impossibile non notare quanto il film conservi anche una sua identità. Merita ricordare una delle didascalie: “Le abitudini stravaganti sono come le alluvioni o le bestie feroci”.

Where Lights are Low (Colin Campbell, 1921)
Ritrovato a Belgrado con didascalie croate e restaurato a Tokyo, Where Lights are Low (Colin Campbell, 1921) merita una parentesi a parte legata più alla copia mostrata che al film in sé. Pochi minuti dopo l’inizio della proiezione, sono in molti gli utenti che nella chat a bordo schermo lamentano un problema comune: la presenza invasiva del logo del National Film Archive of Japan in basso a destra del frame, in una posizione tale per cui, al di là della grandezza del watermark, anche la lettura dei sottotitoli finisce con l’essere confusionaria. Le posizioni a riguardo sono diverse. C’è chi lo definisce un fatto inaccettabile perché tanto questi film non avrebbero comunque commercio. Non è vero, ma andiamo avanti. C’è quindi chi difende questa decisione perché limita la pirateria laddove ostacolarla in toto è ormai impossibile. E poi c’è chi, insofferente e infastidito, interrompe la visione perché reputa eccessivo il fastidio.
Intanto Where Lights are Low continua a scorrere e minuto dopo minuto mostra la sua pregevole fattura. È una vicenda ambientata nel quartiere di Chinatown, a San Francisco, tra gioco d’azzardo e prostituzione. L’intreccio gira attorno alla vendita di schiave sessuali battute all’asta, nello specifico una donna di origini umili di cui il protagonista, un principe, è innamorato. I soldi a un certo punto vengono a mancare, dei gangster locali si mettono di mezzo, ma il lieto fine chiaramente arriva. Chiudendo un occhio sull’implausibilità di uno snodo narrativo (la vittoria alla lotteria), resta comunque un film dall’atmosfera opprimente e delle ambientazioni realistiche. Sessue Hayakawa è un concentrato di classe, eleganza e naturalezza.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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