Venezia77: Il Dubbio – Parte 1, nella mente dell’artista

Venezia77: Il Dubbio – Parte 1, nella mente dell’artista

October 14, 2020 0 By Stefano Calzati

Nell’intimità di un momento di debolezza, la rabbia che esplode in urla cariche di insicurezza. Noi nella stanza accanto ad ascoltare il delirio dell’artista, provando quasi un po’ di imbarazzo nell’osservare la sua ombra muoversi nervosa a lume di candela; intorno il suo studio, le sue incredibili opere, quelle che abbiamo ammirato, estasiati, in svariati musei. Lavori che sarebbe un insulto giustificare con la sola genialità, perché l’arte è sofferenza, masochismo e soprattutto dubbio, di sé stessi e dell’opera, del mondo e del futuro.

Il dubbio al centro di un progetto che ne fa sua la definizione per raccontarlo come scintilla del processo creativo, ingranaggio fondamentale che tutto muove, regalandoci, grazie alla realtà virtuale, un posto d’onore nella mente dell’artista, la visuale libera sui suoi tormenti. Protagonisti Leonardo Da Vinci e Velasco Vitali, nel primo episodio di quella che, nelle intenzioni dei fratelli Matteo e Francesco Lonardi, dovrebbe diventare una serie di esperienze introspettive estremamente interessanti e coinvolgenti, sia vissute stand alone che, magari, integrate in mostre a tema, come già successo per altri artisti (ad esempio Magritte a Milano). Il linguaggio del videogioco che si fa cinema, limitando al minimo l’interattività, il gameplay, per lasciar abbandonare lo spettatore/giocatore agli stimoli ambientali, illudendo di poter toccare con mano il legno grezzo dei mobili che arredano l’appartamento rinascimentale del Da Vinci o i suoi stessi dipinti, credendo perfino di riuscire a sentire l’odore della cera calda che cola dalle candele e dei colori che si stanno asciugando sulle tele. Esperienza ibrida che in questo caso punta tutto su scenografia e recitazione, lasciando che la camera siano i nostri occhi e che le orecchie catturino tutta l’enfasi di monologhi assolutamente non banali. 12 minuti tra tecnologia e psicologia, dove le suggestioni visive sottraggono peso al corpo.

Ai nostri piedi i cani di Velasco, l’osservatore totalmente estraneo dal gruppo, escluso, così pacifico, numeroso ed ermetico, enigmatico. Un branco assonnato, incurante, immobile più per scelta che per mancanza di anima, in attesa di un gesto per potersi destare. Gesti che lo spettatore si trova a fare grazie ai controller dell’Oculus Rift S, spinto a cercare l’interazione anche dove non c’è, limitata com’è a dei trigger utili per far progredire la narrazione, che sia accendere una candela con una lampada a olio o accarezzare un cane che ci gira intorno alle gambe, la pelliccia sostituita da particelle di luce, come a simboleggiare la sua purezza. Certo, la mano è ancora incerta a tratti, non ci si trova di fronte a un’opera compiuta, imperfetta nei controlli e fin troppo statica, bisognosa di farsi conoscere e di perfezionarsi, riscuotendo una curiosità che ne alimenterebbe la crescita, ma già assolutamente degna di essere vissuta (e qui dovranno essere molto bravi a trovare il miglior metodo di distribuzione). Perché è da progetti del genere che dipende l’evoluzione del cinema attraverso la contaminazione di generi, soprattutto in un periodo di repentino cambiamento, accerchiato dall’incertezza di una fruizione del medium che sta vedendo mancare la colonna portante della sala, che sia momentaneamente o definitivamente. Il Dubbio ci fa capire che ragionare per compartimenti stagni è ormai una limitazione, e come il videogioco sta imparando a raccontarsi, partito dall’emulazione cinematografica più banale e arrivando al perfetto equilibrio ludo-narrativo di un The Last of Us Part II, così il cinema può imparare a farsi più avvolgente e meno distaccato nei confronti del pubblico, mettendolo al centro e trasformando gli spettatori in testimoni.

Stefano Calzati