
Il trascendentalismo mistico di Zardoz
November 20, 2020 0 By Simone TarditiSean Connery versione rosso mutandero è l’immagine simbolo di Zardoz, ma non è quella che lo rappresenta. Purtroppo, verrebbe da dire. Purtroppo perché se così fosse sarebbe tutto più semplice, non si renderebbe necessario indossare dei guanti in lattice e rimestare nel torbido, nella melma, per ripulire il film, col fine di ridargli la dignità che gli spetta. Quella dignità che non ha avuto neanche ai tempi della sua distribuzione.
Un piccolo passo indietro. Poco prima, il regista britannico John Boorman ha sparato due cartucce che anticipano Zardoz: il seminale e brutale Un tranquillo weekend di paura, pellicola chiave per tutto il cinema “violento” che arriverà come un’ondata negli anni ’70, e Leone l’ultimo, sua antitesi (almeno in apparenza). Da quest’ultimo, Zardoz rinuncia a recuperare l’eleganza dei personaggi e delle ambientazioni alto-borghesi e conserva soltanto -e non è poca cosa!- lo scontro generazionale tra un nuovo e un vecchio mondo, quello dei giovani contro quello dei vecchi.
Vedere Zardoz oggi, fuori tempo massimo, è una rivelazione ben più grande di quella probabilmente offerta al pubblico dell’epoca. Nel ’74, anno in cui il film esce nelle sale, la Summer of Love, la spensieratezza, la contestazione, sono ormai finite, variate da forza viva a una pagina tra tante nella storia del pianeta Terra. Eppure Zardoz è lì che vuole rivolgersi, a quel pubblico di giovani che però non c’è più, che è ormai cresciuto e proiettato verso nuovi problemi. Risultato? Zardoz non è anacronistico, solo in ritardo di una manciata d’anni. Fosse uscito tra Woodstock e Arancia Meccanica avrebbe fatto sfracelli. Amen. Chissenefrega. Morto SC, con la coda del 2020 è ora che il film venga riscoperto.
La sinossi, in parole povere: corre il 2293, il mondo è fottuto già da un pezzo. Il pene è considerato il Male supremo perché spargitore del seme e quindi strumento per la riproduzione della specie. Ovunque, solo lande desolate, cavalcate qua e là da pazzi con armi da guerra. Nei pochi centri abitati si possono trovare umanoidi incellophanati, embrioni di plastica, piante dentro bolle insaccate. La violenza è stata trasformata in intrattenimento, la memoria privata è diventata spettacolo per altri, il sentire è fatto d’immagini chiave e non più di emozioni personali. La civiltà si fonda su menzogne, privazioni, schiavitù, aberrazioni, …
I colori sgargianti e i toni mai deprimenti non privano Zardoz di un apocalittismo manifesto. L’isolamento individuale è una via di fuga? L’unica soluzione possibile? Il protagonista preferisce scegliere la verità alla vendetta: si rifugia nel sapere. Impara a leggere, consuma ogni libro, assimila ogni concetto. Conoscere è un modo di avvicinarsi a Dio, al creatore del caos dove si dimenano i viventi. Un abbondante ventennio dopo questo snodo narrativo verrà rielaborato da Luc Besson in uno dei suoi film migliori, incompreso quanto quello di Boorman: Il quinto elemento.
Il rifugiarsi nella cultura porta con sé una consapevolezza: essa è anche una prigione. Apprendere non è abbastanza perché si rischia di non vedere oltre a ciò che suscita perplessità. Ci si trova come in un reticolato dove da un lato si è protetti e dall’altro si percepisce ogni cosa esterna come ostile. Per raggiungere Dio, ossia la comprensione più completa dell’infinito universo, bisogna penetrarlo, entrarci dentro, raggiungere il centro del suo spirito e lì, sì, rimanerne intrappolati, condannando se stessi alla morte. Unica via per la liberazione. Una buona morte. Misticismo trascendentale. Rinascita, ecco di cosa parla Zardoz.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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