
Appunti sparsi su L’isola di Kim Ki-duk
December 27, 2020 0 By Simone TarditiOffuscate visioni sotto la superficie. Stronzi e pistole in acqua. Ipotesi e tentativi di suicidio. Morti provocate. Rane spellate. Vermi all’amo, ami in bocca. Fauna ittica. Sushi istantaneo. La crudeltà. Coltellate nelle cosce. Labbra morse. Una scopata di fronte a una locandina di Amedeo Modigliani. Sangue a terra. Uccelli in gabbia. Prostitute che vogliono prendere un caffè prima di darla via per denaro. Papponi con giacche da baseball. Foglie rossicce, tramonti tra la nebbia. Un tentato stupro sotto la pioggia. Soldi messi ad asciugare. Alcol e sigarette. Una motocicletta nel fango. Isolata solitudine. Una donna che sembra aver visto e patito ogni cosa in una vita precedente. Il sesso come unica forma di comunicazione in un submondo primitivizzato.
L’isola di Kim Ki-duk. Un branco di esseri umani fatti di solo istinto e la cui esistenza si compie in ciò che fanno, non in quel che pensano. Il raziocinio non sembra appartener loro. Creature inselvatichite. Un film perlopiù muto come lo sarà poi, tre anni più tardi, Ferro 3. Kim Ki-duk sa fare a meno delle parole per portare avanti la sua storia e, come ogni sapiente regista, può usare unicamente le immagini al fine di ottenere quello che vuole. Il ricorso all’uso della voce è quasi esclusivamente legato alla produzione di un suono, di rado all’elaborazione di un concetto. La lingua è poco usata per parlare. Qui, gli umani di Kim Ki-duk possono regredire di millenni eppure continuare a sopravvivere. Possono scendere al livello degli altri esseri del regno animale e forse lì trovare una via alternativa a quella imposta alla nascita.
Uccidere o togliersi di mezzo, due idee opposte che nel film s’incontrano attorno a un medesimo snodo narrativo, quello della liberazione come presupposto impossibile. Dove il rapporto causa-effetto è, se non nullo, costantemente invertito, dove la condizione ferina non appare così dissimile da quella evoluta, dove tutto si risolve in sesso e violenza, ecco che l’annullamento di sé risulta la meta verso cui silenziosamente dirigersi.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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