Sottoterra con G. W. Pabst, indossando maschere antigas

Sottoterra con G. W. Pabst, indossando maschere antigas

January 13, 2021 0 By Simone Tarditi

In superficie e al di sotto di essa, un confine divide una miniera scavata sia dai francesi sia dai tedeschi. Dopo la prima guerra mondiale la tensione tra i due popoli si fa ancora sentire, l’antipatia tra quei nuclei opposti di umili lavoratori è reciproca. Un giorno, nella parte di suolo in Francia, scoppia un incendio a cui segue un’esplosione: è una strage, ma qualcuno deve pur essere rimasto in vita. La comunità locale si riunisce per assistere agli effetti del disastro. Scatta immediatamente una missione di salvataggio e anche la Germania darà una mano. L’aiuto estero si rivelerà di fatto fondamentale e per qualche ora la frizione si allenterà.

Accantonando tutta la retorica pacifista sulla necessità di una cooperazione tra i due Stati – non sarà così, lo dimostrerà il Nazismo – La tragedia della miniera di G. W. Pabst è un’opera di grande realismo sociale, d’immensa umanità. Il regista toglie i punti alla frettolosa cucitura post-bellica e nel mostrare quanto le ferite nazionali siano ancora sanguinanti, ritorna sui suoi stessi passi rievocando Westfront 1918 uscito solo un anno prima. Un atteggiamento nei confronti della Storia che è di grande lungimiranza: la brutalità dell’essere umano tornerà a farsi viva di lì a breve e le conseguenze saranno immensamente più devastanti per tutti, dai soldati ai civili.

L’impronta della guerra la si scorge già nel titolo originale, Kameradschaft, “Cameratismo”, che a livello di significato ha un valore ben diverso da La tragedia della miniera, a dimostrazione che spesso (non solo in Italia) i film vengono distribuiti privandoli del loro marchio più immediato, quelle parole che li siglano e li rendono identificabili. Per altri motivi, la lingua svolge all’interno di questa pellicola di G. W. Pabst un ruolo fondamentale perché vengono parlate entrambe le lingue dei protagonisti: francese e tedesca. Ed è un punto imprescindibile di tutta la narrazione perché le difficoltà comunicative tra i personaggi generano scontri o paradossale vicinanza proprio in virtù di un non capirsi a vicenda. In un’epoca, quella dei primi anni ’30, dove la pratica di sottotitolare i film era ancora rarissima se non inesistente, tutto questo lavoro linguistico – oggi invece godibile attraverso le versioni home video – andò quasi totalmente a smarrirsi.

A riprova della terribile bellezza del film e della potenza registica di G. W. Pabst, basti ricordare la sequenza del nonno che di nascosto scende nelle profondità per andare alla ricerca del nipote ferito. L’uomo, egli stesso ex minatore, non pensa per un secondo al rischio che corre, non pensa alla sorte, bensì la sfida apertamente. Impressiona l’agilità con cui si muove in quei bui spazi che conosce come le sue tasche. Solo una lanterna dalla fioca luce illumina cunicoli pieni di macerie, detriti e cadaveri. E poi lo trova quel suo nipote, esanime e prossimo alla morte. In lacrime lo solleva, lo trascina in un anfratto asciutto, gli muove le braccia per riallenare il torace a respirare. Legato e incredibilmente sopravvissuto, un cavallo osserva i due umani e la vicinanza tra quei tre animali di due specie diverse è assoluta. Che G. W. Pabst voglia ricordare così i milioni di equini uccisi durante la prima guerra mondiale (ci penserà Spielberg a farne un film) o meno, quell’atmosfera così “terrena” in un contesto che non lo è per niente illude il pubblico quasi di trovarsi altrove e non lì sotto. Dura pochi istanti, un minuto al massimo, ed è un effetto straordinario. Un titolo da non perdere se si ama il cinema.

Simone Tarditi