TSFF32: l’euforia artistica di Paris Calligrammes

TSFF32: l’euforia artistica di Paris Calligrammes

January 24, 2021 0 By Simone Tarditi

Nel 1962 la tedesca Ulrike Ottinger lascia il nido e, in viaggio su un’Isetta azzurra con gufi disegnati da lei medesima, raggiunge Parigi dove nell’arco di poco tempo ha modo di ingigantire la percezione che ha del mondo, della sua enormità. “Nella mia euforia, volevo trasformare tutte le mie esperienze in arte”, dice la creatrice di Paris Calligrammes, un documentario che ripercorre gli anni più formativi della sua vita e della sua carriera, che equivale a dire la stessa cosa.

Si parte dalle innumerevoli visite presso la libreria di Fritz Picard, definita da lei come un “tempio espressionista” dove mucchi di libri (da Ubu Roi di Alfred Jarry alle analisi critiche sull’opera brechtiana, il tutto ordinato nello spirito di Apollinaire) erano impilati fino al soffitto, col rischio di cadere da un momento all’altro. Una storia di esilio parigino che varrebbe di per sé lo sforzo di un film a parte. Una vicenda praticamente sconosciuta che, come anche altre lungo tutto Paris Calligrammes (si veda tutta la sezione sulla campagna coloniale algerina), Ulrike Ottinger decide di raccontare per la sua peculiarità, non solo perché la riguarda tangenzialmente. “Il dramma di ogni antiquario è che deve dare via il suo tesoro”, è una delle verità più grandi che lo stesso Picard riporta in un filmato d’epoca circa la sua professione, così misteriosa e speculativa. Sarebbe un po’ anche quel che direbbe un pittore o uno scultore, categorie anch’esse destinate a veder andar via ciò che hanno generato con le proprie mani. E nella seconda metà di Paris Calligrammes la Ottinger arriva a descrivere anche il suo incontro con Henri Langlois, direttore della Cinémathèque Française, il partecipare alle retrospettive sul cinema muto che l’uomo organizza avanti coi tempi rispetto a ogni altro storico e cinefilo. Tutte esperienze che in seguito la porteranno a diventare cineasta libera di esprimersi come meglio crede. Artista e autrice, pienamente.

In Paris Calligrammes c’è una complementarità del tutto casuale con un altro documentario presentato alla trentaduesima edizione del Trieste Film Festival, Le regard de Charles, sul cantante franco-armeno Aznavour. Qui l’importanza, soprattutto nella prima metà, è data alla carta, ai libri (più vecchi e rari sono, meglio è), alla traccia scritta lasciata con un disegno o la propria firma, mentre nel lavoro su Charles Aznavour si punta tutto sulla pellicola. È il supporto che conta, qualsiasi esso sia. Ci sono diversi modi con cui preservare se stessi e la propria arte, al singolo basta solo scegliere quello che lo rispecchia di più nel suo profondo intimo. Ne consegue un ragionamento più ampio, cioè su quanto ogni vissuto abbia una narrazione e un’importanza, a prescindere dal mestiere svolto. Di Paris Calligrammes si ricordi soprattutto questo: l’atto di amorevole egoismo nell’incidere immagini e suoni di se stessi e delle persone che care sono state lungo il percorso di un’esistenza intera. Un’esistenza che ancora molto avrebbe e avrà da raccontare.

Simone Tarditi