
Il cinema di Chantal Akerman: istantanee di una donna in transito
February 10, 2021 0 By Mariangela MartelliUn film che ha fatto scuola
Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles del 1975 di Chantal Akerman è stato definito come “il primo capolavoro femminile nella storia del cinema” dal New York Times (prima della sua uscita in sala). Il film articola, nell’arco di 201 minuti, i tre giorni nella vita di una donna: Jeanne Dielman (Delphine Seyrig). I gesti ripetuti della protagonista (ripresa spesso di spalle) danno forma a un’esistenza consumata all’interno delle quattro mura domestiche. Jeanne è una casalinga, vedova e con un figlio adolescente a carico. Le informazioni emergono poco alla volta dalla lettera ricevuta dalla sorella in Canada, che Jeanne legge a voce al figlio Sylvain, per colmare la distanza tra i due a cena conclusa. I due trascorrono la serata nella solita routine: tra compiti, conti, musica diegetica della radio in fuoricampo e una rapida passeggiata sotto casa, rischiarata dalle luci al neon delle insegne. Prima di spegnere la luce per dormire avviene un breve dialogo sui rapporti uomo/donna e sulla figura paterna, poi un cartello chiude la giornata. Ri-inizia il giro per altre due volte. Dalla pellicola emerge la cifra stilistica della regista belga: alcune caratteristiche le ritroviamo all’interno dell’intera filmografia come la mdp fissa ad angolatura bassa (di ozuniana memoria) attenta a registrare le azioni del pro filmico, i tempi morti nelle stanze vuote e gli oggetti, primi fra tutti la zuppiera sul tavolo in soggiorno, in cui la donna mette il denaro dei “clienti”, ricevuti durante la settimana.
La prostituzione è per Jeanne un modo per riempire il tempo nell’arco della giornata, al pari delle pulizie e delle compere. Ogni gesto è dosato, meticoloso, svuotato, ripetuto fino all’ossessione: una dinamica in grado di creare un tempo sospeso, rarefatto. Astrazione e distacco accompagnano anche quei rari contatti sociali, in cui Jeanne non si lascia coinvolgere (come quando la vicina le affida temporaneamente il figlio neonato o incrocia una conoscente per strada). Quella della protagonista è un’esistenza in totale solitudine e silenzio, anche fuori casa: in una scena, la vediamo seduta in un cafè per poi alzarsi e lasciare la tazzina sul tavolo: l’oggetto crea uno iato tra le due sedie, in perfetta simmetria. Tutti gli elementi del profilmico rispondono a un criterio di ordine assoluto: nel microcosmo cristallizzato di Jeanne nulla deve essere fuori posto. La pellicola sembra muta, l’attenzione uditiva non è rivolta tanto alle parole ridotte al minimo, quanto all’utilizzo della colonna sonora: il ticchettio dei tacchi sul pavimento scandisce il flusso costante, delle azioni sempre uguali.
Lo spettatore non può che misurarsi con questo scorrere del tempo su grande schermo, soprattutto all’interno dei diversi piano-sequenza. In uno di questi, Jeanne strofina il proprio corpo con la stessa meticolosità con cui risciacqua la vasca dopo il bagno, come se fosse una delle tante faccende da sbrigare. Il corpo/oggetto è un aspetto che permea tutta la narrazione e che spesso non ci è mostrato: come durante i tempi morti in corridoio del prima e dopo gli amplessi. Sebbene lo spazio fisico rimanga immobile è la modulazione della luce (sulla carta da parati) a mostrarci il trascorrere del tempo. Ma all’improvviso qualcosa salta, l’horror vacui emerge e Jeanne si sente soffocare dall’angoscia: non ha nulla da fare. Lascia la zuppiera scoperchiata, il cibo sul fuoco. Il sentirsi fuori fuoco della donna si concretizza in uno dei piano-sequenza più evocativi, ovvero durante la preparazione del caffè: un rituale ripetuto più e più volte fino a quando Jeanne comprende che il disgusto provato non è tanto per il latte o per il caffè ma per se stessa. Eppure una deviazione dal percorso abituale c’è: una sosta durante le compere diventa il percorrere un’altra strada, un aprirsi verso altre possibilità. Jeanne si ferma davanti al negozio con il numero 23, in rosso: il luogo, ripreso nel titolo del film, è dove viene acquistato l’oggetto della vendetta. Come l’abbiamo vista piegare asciugamani, rifare letti e pettinarsi, Jeanne nella scena finale si spoglia con la calma di sempre, davanti allo specchio in camera. Poi, durante il rapporto con il cliente, è schiacciata, immobilizzata. Nessun climax quando lo specchio riflette la lentezza dei gesti con cui la donna si libera dalla repulsione. Infine Jeanne siede al tavolo, nella penombra della sala, rilassata, con una traccia sulla camicia bianca, nella stessa posa che la regista ha impiegato in una delle sue installazioni, Woman sitting after killer per l’ Esposizione Internazionale d’arte di Venezia del 2001. << Mi girai nel mio letto, inquieta. Ed all’improvviso, in un solo minuto, ho visto tutto Jeanne Dielman… >>
Jeanne, il secondo lungometraggio della Akerman, con cui raggiunge il successo internazionale è stato adottato dalle femministe di quegli anni come un manifesto per denunciare l’alienazione della casalinga. La pellicola è stata anche fonte di ispirazione per i registi che sono venuti dopo, come Todd Haynes e Gus Van Sant: quest’ultimo, in un intervista nel documentario dedicato alla regista (I don’t belong anywhere: the cinema of Chantal Akerman; Marianne Lambert; 2015) racconta di essersi ispirato per il suo Last Days del 2005 ad alcune sequenze in cucina di Jeanne. Il documentario del 2015 si focalizza sulla poetica della Akerman: è la sua voce in e off ad accompagnare le immagini delle location dei film girati (Bruxelles, Parigi, New York, Tel Aviv). Viaggiare è per la cineasta un modo per connettersi con le proprie radici e per scavare nella memoria della famiglia.
Sperimentare a vent’anni
La carriera cinematografica di Chantal inizia nel ’68, a Bruxelles, dove realizza il primo corto Saute ma ville, influenzato dal godardiano Pierrot le fou, del ’65. La Akerman stessa interpreta la giovane protagonista che mette a ferro e fuoco la propria cucina. Al contrario di Jeanne, qui domina il caos ma il delirio viene interrotto dal gesto estremo, riflesso sullo specchio. Un fiammifero acceso, il gas aperto e una voce off che canta e legge i titoli di coda, chiudono il tutto dopo il buio e lo scoppio. A seguito del periodo parigino, la ventunenne Chantal sbarca nella grande mela dove rimane affascinata dal cinema sperimentale. Per mantenersi svolge vari lavori, tra i quali quello di assistente presso l’Anthology Film Archives. Con i primi guadagni riprende a girare: i lavori del periodo risentono l’influsso del New American Cinema Group e iniziano ad attirare l’attenzione della Critica Femminista, come per La chambre del 1972 in cui la Akerman passa al colore e sperimenta le panoramiche in loop (dopo aver visto con un’amica La Région Centrale di Michael Snow, una pellicola di 3 ore proiettata più volte). Nel corto, l’attenzione di Chantal è rivolta a tutto ciò che abita il proprio monolocale a Soho: dagli oggetti inanimati (mobili, natura morta sul tavolo, una teiera) alla regista stessa, che con poche variazioni rimane semi-sdraiata sul letto, nell’atto di osservarci mentre addenta una mela.
Silenzio e ciclicità sono elementi a cui la regista non rinuncerà in tutta la carriera, inoltre questo corto è un ponte con il il medio-metraggio dello stesso anno, Hotel monterey, girato sempre a New York. Le stanze vuote, la simmetria, le luci artificiali, le attese nella hall non possono non ricordarci le atmosfere dei dipinti di Edward Hopper. La mdp sbircia da una porta rimasta socchiusa, restituendoci i frammenti di ospiti in attesa; oppure il nostro sguardo inizia a vagare, percorrendo in avanti e a ritroso i corridoi alla Shining mentre luci, porte e specchi si susseguono nelle zone di passaggio. L’unica apertura verso l’esterno avviene al finale con lo sguardo sulla città, dall’alto del tetto.
I non luoghi, gli spazi pubblici e quelli privati catturano lo sguardo della Akerman: ritroviamo la solitudine dei viaggiatori nei dis-incontri notturni anche In Tout une nuite del 1982, in cui una serie di coppie (amanti, coniugi, amici, fidanzati, sconosciuti) si lasciano, si innamorano, si ritrovano, si evitano nell’arco di una notte. Attraverso il silenzio e i tagli di montaggio, la regista dà forma ai sentimenti e ai non detti: i dialoghi, ridotti all’essenziale, lasciano esprimere le immagini e i suoni di quei gesti scambiati o negati all’interno di appartamenti vuoti o per le vie della città. Incomunicabilità e attese, porte chiuse e finestre aperte dalle quali irrompe il vocìo dalla strada, completano l’atmosfera. C’è l’essere soli di due sconosciuti al bar che si alzano dopo la bevuta per legarsi in un abbraccio e ballare in totale silenzio. Ma ci sono anche le luci al neon, le lettere sotto la porta e le donne che scendono le scale di corsa, scalze, mentre una siepe in primo piano ci nega la visione totale degli amanti ritrovati. L’afa della notte che toglie il sonno, gli arrivi e le partenze all’alba. I saluti alla stazione, le ombre sui muri e un telefono che squilla completano il susseguirsi di presenze/assenze.
Con una trama più lineare è Nuit et jour del 1991 in cui assistiamo alla storia di una coppia che si gode il momento presente: Jack (taxista di notte) e Julie. I due condividono un appartamento a Parigi e vivono in simbiosi, totalmente presi/persi nel microcosmo che li racchiude. Poi il collega Joseph (taxista di giorno, presentato da Jack) diventa l’amante di Julie: la donna deve dividersi tra la notte e il giorno per trascorrere il tempo con entrambi. In alcune scene la protagonista cammina da sola per le vie parigine, canta passando davanti ai cafès e ai monumenti come in un musical, oppure legge a voce alta lungo la Senna. C’è leggerezza nei sentimenti che si trasformano: dall’amore che lascia il posto alla gelosia, dalla passione all’abitudine, alle decisioni da prendere.
Raccontare qualcosa di sé e la ricerca delle proprie origini
Nelle pellicole della Akerman c’è spesso una certa autoreferenzialità. Dal rapporto con la madre, al suo essere viaggiatrice, alle sue relazioni. Ne Les rendez vous d’Anna del 1978, la protagonista Anne Silver è un alter-ego della regista: anche lei belga, in viaggio attraverso la Germania Ovest, il Belgio e Francia per promuovere il proprio film. Gli incontri fugaci lungo il percorso si alternano tra sconosciuti, amici, amanti per poi arrivare alla madre. È a quest’ultima, che Anne, in una scena di notte nella stanza dell’hotel condivisa, racconta di essersi innamorata di una donna. Il ritorno nell’appartamento parigino coincide con il bisogno di isolarsi di Anne, mentre la segreteria telefonica ci fa sentire messaggi ai quali non seguono risposte. Un film sulle attese e sul pensare nel tanto viaggiare: il tono minore della narrazione si riflette nella fotografia desaturata, dai toni ocra e nei non luoghi simmetrici e desolati (stazione, hotel). L’omosessualità della regista è un aspetto che è già emerso nel primo lungometraggio, realizzato nel 1974 a Parigi: Je, tu, il, elle e distribuito nel ’76. La pellicola, ispirata a Due o tre cose che so di lei di Godard è in bianco e nero e la voce off della regista descrive le giornate tutte uguali della protagonista (la stessa Akerman) all’interno della quattro mura. Cronaca di una reclusione (volontaria?) fatta di gesti ripetuti in silenzio: la giovane sposta i mobili, scrive lettere su fogli che ordina sul pavimento mentre la luce della giornata scandisce il tempo narrativo. Crepuscolo e neve: Je si avvicina nuda alla porta-finestra per sentire le voci dei bambini poco distanti ma un passante la vede. Je decide di uscire solamente quando termina il sacchetto di zucchero, suo unico nutrimento. Un camionista (il) le offre un passaggio e dal monologo dell’uomo alla guida di notte, emerge un’esistenza di ripetizione, solitudine e squallore. La protagonista si lascia trattare al pari delle altre ragazze abbordate per strada per poi raggiungere l’appartamento di un’amica (elle) interpretata dalla compagna dell’epoca della regista. Je è affamata, assetata, rimane per la notte nonostante l’amante fosse restia. Il piano-sequenza della scena di sesso è tutta giocata sul rumore delle lenzuola a contatto con i corpi ma la protagonista non rimane e lascia elle nel sonno.
La Akerman si è occupata anche di documentari, nei quali la memoria individuale si intreccia con quella della Storia. In D’Est del 1993, realizzato in 16 mm tra Polonia, Russia e Germania Est, la regista ritrae la vita delle persone dopo il crollo del muro. Si susseguono impressioni, sensazioni e ricordi, mentre la voce off della Akerman cita le poesie di Anna Akhmatova. Il ritmo narrativo è rigoroso: ambienti e azioni plasmano una serie di ritorni e ripetizioni. Per quanto riguarda gli spazi chiusi, l’articolazione dei piani all’interno delle abitazioni poli-nucleari ci mostra la convivenza di più generazioni sotto lo stesso tetto. Dalla nonna in cucina (variante russa di Jeanne) all’adolescente che si mette il rossetto sul letto, passando per padre e figlio alla tv. La fotografia dai colori saturi crea un’atmosfera tra il nostalgico e il kitsch al pari della musica popolare del giradischi, le tende floreali e la carta da parati. Negli spazi aperti le contadine che lavorano la terra esibiscono la ciclicità di tradizioni arcaiche ma anche l’arretratezza che permane nei luoghi dell’ex blocco sovietico, nonostante la Riunificazione. All’isolamento rurale, modulato dai cartelli e dalle file di alberi sul limitare della strada, si contrappone la città dove le tante persone in fila, sotto la neve o in stazione, rimangono bloccate in un’attesa infinita: sono in una zona di passaggio, un luogo che non esiste e che annulla le loro identità. Bagagli e colbacchi in primo piano insieme al degrado dei casermoni sullo sfondo vengono ripresi nei lunghi piano-sequenza in camera-car. Poi la mdp si avvicina, per dare un volto ad un’umanità di giovani e vecchi, illuminata dalle insegne rosse e blu. La Akerman ha trasformato questo documentario in una installazione, mettendo in nuce le proprie radici polacche-ebraiche e l’aspetto del nomadismo. Ricordiamo che la regista, fin dall’infanzia ha dovuto confrontarsi con i fantasmi del passato della propria famiglia: i nonni materni sono morti ad Auschwitz mentre la madre è sopravvissuta al dramma della deportazione. Chantal è il nome francese scelto per nascondere quello ebraico, Hannah. Il suo fare i conti con la memoria per trovare la propria identità è ciò che la accomuna con i figli di coloro che hanno vissuto direttamente la Shoah.
La cineasta non si è occupata solamente di film in senso stretto: dal 1995 ha realizzato una serie di installazioni (https://chantalakerman.foundation/) alcune delle quali per collaborazioni con il Centre Pompidou, la Biennale e Dokumenta. Video-proiezioni e monitor in split-screen restituiscono l’aspetto frammentario della ricerca identitaria e allo stesso tempo rendono il visitatore attivo, capace di stabilire un dialogo con l’opera: girandoci attorno e misurandosi con gli spazi espositivi. L’attenzione della regista verso il corpo, alla sua presenza/assenza, in transito/immobile è una costante che viene contaminata con le altre arti: teatro, danza, musica, arte contemporanea (ricordiamo il documentario su Pina Bausch dell’89: Un jour Pina a demandé). Inoltre la Akerman è stata presidente della giuria della sezione “Orizzonti” nel 2008, professoressa di cinema alla European Graduate School di Saas-Fee, in Svizzera e insieme ad altri artisti francesi ha sottoscritto la lettera aperta agli spettatori cittadini (pubblicata da Libération il 7 aprile 2009) contro la legge numero 669 del 12 giugno 2009, nota come “Loi Création et Internet” sullo scaricamento illegale in rete e il diritto d’autore.
Il legame con la madre
Il dialogo con la figura materna, attraverso il dispositivo filmico, inizia nel 1976. Chantal, dopo il successo internazionale di Jeanne, torna a New York e realizza News from home, in cui coglie gli aspetti sospesi di una metropoli svuotata dalla confusione che la contraddistingue. La simmetria dei palazzi e delle strade (per lo più deserte) fa da sfondo alla voce off della regista, mentre legge le lettere ricevute della madre. Il rapporto madre-figlia rimane nonostante la distanza, quei piccoli gesti quotidiani fatti da vicino, adesso diventano parole su carta: le preoccupazioni per i vestiti e il cibo, la solitudine in luogo straniero, i racconti degli altri componenti della famiglia, i soldi spediti. Suggestive le scene per le vie di notte, da dove la mdp osserva le persone all’interno dei locali. Le riprese non sono solo fisse ma anche in movimento, sui mezzi (macchina, treno e barca). NY ci viene mostrata da lontano: una cartolina tra nebbia, gabbiani e torri gemelle.
Interessante notare come l’ultimo lavoro della regista del 2015, No Home Movie (presentato al Festival di Locarno) dedicato alla memoria della madre, abbia delle similitudini con Jeanne Dielman: nella scena in cui la madre della Akerman è al tavolo mentre pela le patate. La pellicola, totalmente girata con una camera a mano e un BlackBerry, ci mostra una breve sequenza di ritorni e partenze della figlia alla casa materna, a pochi mesi dalla scomparsa di entrambe (la madre muore nell’Aprile 2014; Chantal si suicida nell’Ottobre 2015). Nelle conversazioni da vicino (durante la condivisione dei pasti) e da lontano (via Skype), la madre Natalia racconta la propria vita: l’educazione ebraica, l’infanzia con i genitori e i fratelli in Polonia, il suo essere sopravvissuta ad Auschwitz. La videochiamata della figlia, tornata a New York, mostra la ri-mediazione all’interno dell’immagine: un gioco di specchi tra lo schermo del pc e il dispositivo filmico. Inoltre, durante gli intermezzi, avviene un confronto visivo tra gli spazi aperti e chiusi: la propria ombra sull’acqua stagnante del deserto, catturata dalla regista, è un’immagine opaca che si completa con quella trasparenza delle tende nel salotto materno. Il peggioramento della salute della madre è catturato in un ritorno dalle riprese mosse e fuori fuoco. La figlia chiede che le si racconti ancora una storia, il letto rimane disfatto e la luce del giorno aleggia nella zona di passaggio, che collega le stanze.
<< La mia vita, non ho una vita. Non ho saputo farmene una. Allora qui o altrove. Ma altrove è sempre meglio. Allora non faccio che partire e ripartire e tornare poi sempre. >>
(La foto di anteprima all’articolo è di Elizabeth Lennard)
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