America del silenzio e della distanza nel cinema di Kelly Reichardt

America del silenzio e della distanza nel cinema di Kelly Reichardt

February 25, 2021 0 By Emilio Occhialini

Si parla poco di Kelly Reichardt, regista rappresentativa dell’attuale scena indipendente americana e attenta a costruire, con una ricercata evoluzione stilistica e narrativa, una forte coerenza autoriale lungo la sua carriera cinematografica. Il suo è un cinema nomade, errabondo, “spaesato”, profondamente radicato in una realtà sociale e territoriale che si preme di comunicare per immagini. Un cinema che, come i suoi personaggi, cammina ai margini dei circuiti cinematografici, facendo eco prevalentemente negli ambienti festivalieri e infine costretto a rimanere in silenzio, lontano dai riflettori. Perché silenzio e distanza sono parole che si fanno aghi decisivi nel definire la trama e il tessuto della carriera cinematografica di Kelly Reichardt. Nel panorama italiano il suo cinema è praticamente ignoto, nonostante ogni suo lavoro venga puntualmente accolto con acceso interesse della critica quando la regista presenzia al festival di Berlino, nel 1994 con l’esordio River of Grass e il recentissimo First Cow, oppure al lido di Venezia dove venne presentato nel 2010 il western revisionista Meek’s Cutoff e il bistrattato Night Moves.

Come dicevamo in apertura, il suo cinema irradia lo stesso spirito nomade che guida i suoi personaggi, avventurieri perdenti, figure ai margini della società, anime solitarie in cerca di una propria identità, di una realizzazione che mai si manifesta. Kelly Reichardt inizia la sua carriera su questa onda, raccontando il bisogno di ritrovare un contatto umano, narrando i viaggi e le gesta di persone comuni dell’eterno continente americano.  Che sia una fuga dal ruolo di madre e moglie, come la protagonista di River of Grass; la speranza di ritrovare un vecchio amico, che sia un tentativo vano non importa, come avviene nel viaggio di un giorno dei due amici di Old Joy; l’assoluta certezza che in Alaska ci sia possibilità di lavoro, fuggendo da un passato familiare di cui non ci è dato sapere, come per Wendy, primo personaggio che segna la collaborazione tra Reichardt e la sua musa Michelle Williams; in cerca di fortuna nella wilderness dell’Oregon Trail del 1845, sperando di trovare il sentiero per una incontaminata terra da colonizzare; pur in contesti sociali diversi, tratteggiando la pura e semplice speranza di aver trovato un affetto in una società imbrigliata nei suoi rigidi codici morali e sociali, come per le quattro certain women del Montana; e infine, specularmente al film precedente, ritrovarci soci d’affari e soprattutto amici in un’altra wilderness americana che sarebbe stata contaminata da lì a poco dalle logiche capitalistiche incarnate dall’arrivo di una prima e docile vacca da latte in un paesino dell’Oregon.

In questa prima breve rassegna non è stato menzionato però un titolo come Night Moves, film del 2013 con Jesse Eisenberg e Dakota Fanning. Forse un film non perfetto, ma degno di nota, in cui Kelly Reichardt, servendosi di un cast di richiamo, dirige un thriller nevrotico e cerebrale che trasforma e sottrae la tensione vino a schiacciarla in un cerebrale clima di paranoia politica e ideologica. Perché la parabola dei tre ecoterroristi non viene definita prima di tutto dal viaggio in uno spazio (in quel caso, la sequenza dell’arrivo alla diga da sabotare è formidabile), ma dall’incapacità teorica e poi pratica che li tiene prigionieri e vittime delle loro azioni. In quello che potrebbe essere considerato un prologo ad una fuga, è invece un film che disattende le aspettative e termina proprio nel momento in cui Jesse Eisenberg inizia il suo viaggio verso la perdizione. Non ci è dato saperlo come procede, si veda la spiazzante inquadratura finale nel supermercato prima dei titoli di coda. Forse il film più freddo e problematicamente distaccato di Kelly Reichardt che ribadisce, con la sua denuncia politica, un elemento tematico che torna prevalentemente nel suo cinema: il bisogno di ristabilire una connessione tra l’uomo e l’elemento naturale.

Fin dal primo film River of Grass, la regista denuncia subito una poetica che fa del grande paesaggio americano uno specchio delle pulsioni e ambizioni che guidano (e spesso tradiscono) i suoi protagonisti, sia per quello che essa fu come nei successivi due western, sia per quello che è diventata oggi. Lo sguardo sulla natura diventa riflessione alterna tra presente e futuro. Il fiume a cui fa riferimento il titolo del film d’esordio indica una denominazione che usavano gli indiani per riferirsi a quelle lande della Florida conosciute come Everglades, “zone che si consideravano inabitabili e che infine divennero di interesse economico per costruirci centri commerciali ogni 15 miglia”. La conformazione del territorio si fa elemento geografico-narrativo di rilievo per narrare un’America che, dalle disavventure precarie a bordo dei carri dell’800 fino alle grandi autostrade della Florida che vengono messe in evidenza nell’esordio, si è lasciata drogare da una lenta e secolare trasformazione che ha lasciato ai margini delle strade una fetta di popolazione smarrita e senza punti di riferimento. Il primo film di Kelly Reichardt è ancora ambientato in un contesto urbano di periferia, che diventa prigione esistenziale dei due protagonisti, convinti di aver trovato nell’altro un motivo per fuggire dalla solitudine, rimangono intrappolati e incapaci di fuggire da Miami, costretti a incanalarsi lungo la trafficata autostrada con cui si chiude l’ultima inquadratura.

River of Grass venne girato con pochissimi soldi, diretto con un cast semisconosciuto e soprattutto non permise a Kelly Reichardt di potersi dedicare immediatamente ad un secondo progetto, costretta come la sua protagonista a tornare ad un punto di partenza in Florida, dove la regista è nata. Prima di girare il secondo film passeranno ben dodici anni, un intervallo di silenzio in cui si registra però un’attività non trascurabile ai margini estremi della grande industria del cinema, con la produzione di Ode, un mediometraggio girato in Super 8, e due corti riconducibili al campo della videoarte, Then a year e Travis. Lavori non trascurabili con cui l’autrice mette in forma elementi poetici ed estetici della successiva e fortunata filmografia: Ode è un riadattamento moderno di un testo di Hermann Raucher, un dramma con cui la regista affronta temi come l’omosessualità e il suicidio; in Then a year e Travis, girati nei primi anni del nuovo secolo, Kelly Reichardt affronta il collage audiovisivo, compone mosaici ai limiti dell’ermetismo, laddove in Then a year è riscontrabile uno sguardo che cerca di cogliere barlumi di natura incontaminata e frammentaria, in Travis lo sguardo si fa visione puramente astratta e sperimentale, un magma indefinibile che scandisce a ripetizione la voce di una madre che ha perso il proprio figlio in Iraq durante la presidenza Bush. La frammentarietà della radio politica che entra nel percorso dei protagonisti è un elemento che ritorna successivamente. Nel film che rompe il lungo silenzio di “inattività”, quando il protagonista si muove in macchina per la città, siamo costretti ad ascoltare le informazioni politiche che vomita la radio. Una volta lontano dal rumore frastornante della città, i due amici di Old Joy possono inoltrarsi nella natura sulle note della colonna sonora degli Yo La Tengo.

Nel suo secondo film la natura diventa predominante e se già in River of Grass era riscontrabile un chiaro rimando cinematografico a Badlands di Terrence Malick, in Old Joy ritorna come componente tematica e formale cara alla sua regista. Immersi e disorientati nel verde dell’Oregon, i due amici riescono a mettere a nudo caratterialmente e fisicamente i propri tormenti e ritrovare la gioia di un tempo in nome di un’amicizia virile. Con una regia attenta a cogliere in più piccoli gesti e dettagli, ne emerge un intimo ritratto di rara sincerità e tenerezza. La capacità di Kelly Reichardt di raccontare i suoi personaggi in relazione al paesaggio che raggiungono, che sia in forte connessione o conflitto con esso, la avvicina molto alla sensibilità del regista texano di The Tree of Life, sebbene il suo cinema sia improntato esteticamente verso un minimalismo più asciutto e mai edulcorato; non a caso viene spesso paragonata a Gus van Sant, a conferma che il rimando tra i due vede Neil Kopp sia come produttore di Paranoid Park che di Old Joy.

Con Wendy and Lucy racconta l’impossibilità di una giovane ragazza di raggiungere l’Alaska costretta a girare in tondo in una cittadina dell’Oregon dove ha perso il suo cane. La macchina da presa ritrae la solitudine di un’anima smarrita, dimenticata e che cerca di dimenticare il proprio passato, con una trasparenza stilistica che rimanda ai classici del neorealismo italiano quali Ladri di biciclette, Umberto D. e Il cappotto. La ricerca costante del suo cane Lucy diventa per Wendy un’odissea nella quotidianità precaria in cui sopravvive una parte dell’America, costretta a imbarcarsi in lunghi viaggi in cerca di una fortuna che non c’è. Il personaggio di Wendy che fa interpretare per la prima volta a Michelle Williams è il primo di una serie di grandi ritratti femminili che definiscono la sua poetica.

Nell’eccelso Meek’s Cutoff, tutt’ora il suo film più importante, Kelly Reichardt dimostra di saper rileggere un genere ampiamente storicizzato come il western e con esso il mito della frontiera, e lo fa con una maturità stilistica quasi granitica che le permette di rileggere con invidiabile sguardo antropologico la storia del West. Narrando le gesta di tre famiglie a bordo dei loro carri lungo il pericoloso viaggio per l’Oregon Trail a metà dell’800, Kelly Reichardt costruisce un claustrofobico western che chiude i suoi personaggi in un formato 4:3 decisamente poco convenzionale per la ricerca nella nefasta immensità con cui parte della cinematografia americana ci ha abituato a immaginare il West. Emerge in questa epica negata il personaggio femminile della sempre magnifica Michelle Williams, unica persona in un viaggio guidato da uomini incapaci, meschini e spesso razzisti, come l’incapace guida incaricata di guidarli per le ostilità del deserto. L’epopea diventa un viaggio verso il nulla e il deserto che lo spettatore segue lentamente minuto per minuto, nei lunghi silenzi con cui Reichardt asciuga e distende l’azione, diventa terreno per esplorare le tensioni americane più ataviche. Il campo controcampo finale taglia dall’interno come un bisturi più di un secolo di cinema western.

In Certain Women, la regista costruisce un ritratto corale di quattro figure femminili con le quali ricapitola parte della sua filmografia, cosa che farà in maniera ancora più audace in First Cow. Il silente inferno dei deserti dell’Oregon in cui si smarriscono le tre famiglie di Meek’s Cutoff lascia lo spazio all’odierno Montana di Certain Women, dove quattro donne di differenti strati sociali affrontano la loro quotidianità. Nella pastorale americana di Kelly Reichardt l’epoca del far west lascia spazio al grigiore di un Montana in cui si muovono lentamente le sue protagoniste. Un cast che annovera, oltre alla fedele Williams, icone come Laura Dern e Kirsten Stewart: una serie di volti con cui l’autrice dipinge ritratti di donne sperdute nella provincia americana. Come in Meek’s, l’andamento è lento, le inquadrature costantemente fisse, l’azione si dilata quasi all’inverosimile e Kelly Reichardt lavora ulteriormente sul suo minimalismo fino a scarnificare la messa in scena, lasciando emergere dai dilatati tempi morti della solitudine un barlume di calore umano in una fredda e dimenticata contea del Montana, in cui anche l’inquadratura della più insignificante azione umana può essere salvifica.

Tutto torna e si scontra in First Cow. Prodotto dalla A24 e forse il film più ambizioso della regista, Reichardt adatta per il cinema il romanzo La semivita del suo sodale collaboratore Jon Raymond, per ritornare sul western (genere cinematografico che dimostra di saper affrontare come pochi altri cineasti americani) e porta il suo corpus di opere ad un ulteriore sviluppo di autoriflessione. Se Certain Women proseguiva, con un salto di quasi due secoli, la rilettura femminista che la regista aveva fatto del mito della frontiera con Meek’s Cutoff, con l’ultima opera arriva addirittura a ribaltarne la prospettiva. Laddove nei due film precedenti la figura maschile veniva relegata ai margini, in questa ultima opera Kelly Reichardt affonda lo sguardo in un mondo solo maschile, in cui le donne rimangono nella cornice della società, silenti osservatrici di una deriva che sta traghettando i suoi valori verso un germinale capitalismo. Prediligendo il 4:3 come nel western precedente, il film racconta il commovente incontro tra due viaggiatori, il cuoco Figowitz e l’immigrato King-Lu, che scoprono il valore dell’amicizia prima di rimanere loro stessi vittime di una disperata violenza. Il capitalismo arriva sotto le mentite spoglie di una docile vacca, dalla quale i due amici si recano di notte per rubarne rispettosamente il latte di cui si serviranno per cuocere delle mirabolanti frittelle da vendere in paese. Purtroppo, il latte della vacca è destinato a macchiarsi del sangue degli uomini, origine della loro avidità, come lo saranno i pozzi di petrolio di Daniel Plainview, perché alla fine si torna lì, al sangue che scorre e scorrerà. Come Paul Thomas Anderson, anche Kelly Reichardt conosce bene le contraddizioni e i valori che tormentano l’America. Regista, sceneggiatrice e spesso pure montatrice, la coerenza con cui ha portato avanti il suo percorso cinematografico fa di Kelly Reichardt un’autrice importante per il cinema contemporaneo. Sette film in cui le storie di donne e uomini comuni diventano la lente d’ingrandimento cui con sondare le cicatrici invisibili dell’America di ieri e oggi. La citazione di William Blake che apre First Cow racchiude in pochissimi versi l’anima del suo cinema: “The Bird a nest, the spider a web, man friendship”.

Emilio Occhialini