
Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin, l’omaggio di Herzog a un amico
April 6, 2021 0 By Mariangela MartelliRi-vedere il documentario di Werner Herzog Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin uscito nel 2019, in tempo di Covid significa, per lo spettatore, fare i conti con quell’anatomia dell’irrequietezza che spinge ogni viaggiatore a non rimanere per troppo tempo nello stesso posto. È proprio la mancanza o limitata libertà di spostamento, imposta dall’attuale situazione, che ci fa misurare con il concetto di limite. Riflessione che ritroviamo come base comune nei lavori sia di Herzog, sia di Chatwin. Nel documentario, ripercorriamo i vari capitoli dell’esistenza dell’archeologo, antropologo, scrittore inglese, attraverso l’intreccio delle otto tappe che articolano la struttura filmica. Herzog omaggia la figura dell’amico scomparso nel 1989, ritornando sui luoghi attraversati da quest’ultimo, cercando di ricostruire parte degli incontri che l’esploratore ha annotato sui taccuini. Le riflessioni, messe nere su bianco nei vari diari di campo, sono state pubblicate sotto forma di romanzi, lettere e saggi.
L’essenza dell’amicizia Herzog-Chatwin è tutta racchiusa all’interno della prima parola del titolo: Nomad, intesa come uno sguardo sul mondo comune a tutti coloro che vanno a piedi. In apertura, sentiamo il reading in voice-off di Chatwin, registrato dalla BBC nel 1983, delle prime pagine di quello che è diventato un libro cult nella letteratura di viaggio, In Patagonia, pubblicato nel 1977 (ricordiamo che in Italia la bibliografia dell’autore è edita da Adelphi). In Patagonia è la cronaca di Chatwin in questo luogo-limite, alla fine del mondo, in cui si è recato per ricercare le proprie origini. Herzog ci presenta il suo amico attraverso una serie di oggetti, a partire dalla nave arenata a Punta Arenas, appartenuta all’antenato di Chatwin: il marinaio Charlie Mildward. Il mezzo, mai arrivato a destinazione, è anche la tappa da cui il regista inaugura il percorso filmico. Il focus sugli oggetti-depositi di memoria continua, al fine di mostrare il senso attribuitogli dall’esploratore: dai Naturalia (come il pezzo del milodonte esposto nella Wunderkammer della nonna), agli Artificialia (la statuina del viaggiatore vittoriano con inciso il motto della partenza per un lungo viaggio). Oggetti ponte, in grado di attivare una connessione tra il presente e la preistoria di Chatwin. Se il paesaggio selvaggio, inospitale della Patagonia, è l’immagine di uno dei sentieri che i due amici hanno visto intrecciarsi nel corso della loro vita è, invece, nello spazio chiuso della grotta in cui entrambi attingono per alimentare la propria immaginazione. L’aurea legata al mito prova a prendere forma sia all’interno della filmografia di Herzog, sia nella bibliografia di Chatwin: dalla Cave of forgotten dreams del primo alla grotta del milodonte del secondo, quest’ultima è stata meta di pellegrinaggio dello scrittore prima che il successo del libro la trasformasse in meta di turismo. I resti del grande mammifero del Pleistocene, scoperti nel 1895, sono oggi esposti al Museo La Plata, dove Herzog continua il viaggio. Il dialogo che il regista instaura con il biografo-mediatore Nicholas Shakespeare è articolato a più riprese nel corso del documentario. Ci vengono subito mostrati i taccuini sui quali Chatwin registrava le note di campo: non solo i dati oggettivi ma anche le sensazioni provate, i frammenti di conversazioni e gli schizzi dei paesaggi. Un modo di trasporre la realtà sotto forma grafica: il lavoro di ritaglio di Chatwin dà, a Herzog, l’impressione che i fatti da lui narrati siano più veri della realtà.
La nozione di limite viene declinata dai due amici nell’interesse verso l’ignoto, l’Altro e ai confini da superare. Arriviamo nel Wiltshire, il cui paesaggio costellato da monoliti, cumuli e grotte è ripreso dall’altro attraverso l’utilizzo del drone, secondo i canoni dello stile documentaristico; mentre i canti spirituali della colonna musicale infondono un clima misticheggiante a Silbury Hill, il complesso neolitico più grande del mondo. Il sito è considerato un punto zero da cui le forze magnetiche si propagano in un’eco infinita sul mondo e che nel documentario fanno rotta verso la terra natale di Chatwin: il Galles. Le rovine del Llanthony Priory sono la cornice dell’incontro tra Herzog ed Elizabeth Chatwin, la vedova dello scrittore. Nella conversazione emerge la necessità, sempre sentita da Chatwin, di ritornare al proprio paesaggio dell’anima: la Black Hill, per rimettere ordine dopo il tanto viaggiare. Ricordiamo che il luogo è l’ambientazione del romanzo Sulla collina nera del 1982. Se il qui e ora della collina natia, dona a Chatwin il tempo del riposo, è nell’Altrove che trova quelle infinite possibilità che alimentano la sua ricerca. A tal proposito, lo scrittore ha sempre amato il paesaggio dello squilibrio nel primo film di Herzog: Segni di vita (Lebenszeichen, 1968) di cui ci viene mostrata la scena dei diecimila mulini a vento, percepiti durante la pazzia del protagonista, un soldato della 2^ G.M.
È questo in fondo l’unico coraggio che si richieda a noi: essere coraggiosi verso quanto di più strano, prodigioso e inesplicabile ci possa accadere. Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1929.
Herzog ci porta in Australia, a Coober Pedy, dove intervista l’antropologa Petronella Vaarzon-Morel. La donna legge la poesia (di cui sopra) racchiusa all’interno della preziosa corrispondenza avuta con Chatwin. Regista e scrittore condividono anche la fascinazione verso la mitologia degli aborigeni australiani. Herzog legge in inglese, nel suo inconfondibile accento, la descrizione del paesaggio tratto dal libro Le vie dei canti (The songlines, 1987), mentre scorrono le immagini del paesaggio ripreso dall’alto. La ricerca dell’originario, dell’incontaminato, è qui intesa nella pratica del canto degli aborigeni con cui Chatwin è entrato a contatto, percorrendo insieme i sentieri dell’Australia centrale. Un canto che è il linguaggio con cui i nativi leggono il mondo e lo abitano. L’archetipo dell’azione del cantare e camminare è per loro anche una mnemotecnica per sapersi orientare, per spostarsi da un punto ad un altro. Una modalità con cui le popolazioni nomadi australiane hanno da sempre tessuto il loro cammino con i fili del mito e dei sogni. Uno storytelling cantato per tutta la durata dello spostamento e che, ogni volta, aggiunge un tassello all’identità individuale e del gruppo. Una narrazione infinita, trasmessa da una generazione all’altra per non dimenticare che la strada inizia, finisce e ri-inizia. Chatwin, durante questa esperienza, ha tracciato i percorsi sui fogli volanti del taccuino che, nel documentario, vengono ricomposti da Werner Herzog, come tasselli di un puzzle. Nelle interviste condotte dal regista ai discendenti dei nativi, spicca il pdv di uno di loro, diventato curatore dello Strehlow Research Centre. Il centro prende il nome dal linguista e antropologo Ted Strehlor, il quale ha raccolto parte del vasto patrimonio immateriale dei nativi australiani, mettendo per scritto i loro canti, in modo che non andassero perduti. La raccolta Songs of Central Australia è però oggetto di censura da parte dei discendenti: l’accesso alla conoscenza, custodita al suo interno, è riservato solamente agli iniziati, considerati come i veri detentori delle connessioni tra lo spazio del quotidiano e lo spazio del sacro. Un ordine cosmologico che deve essere tutelato e che quindi, nel documentario, viene celato agli occhi di Herzog e di conseguenza non riprodotto in immagine audio-visiva. Il non-voler esibire qualcosa a tutti i costi è una precisa volontà del regista di rispettare ciò che è inviolabile, facendo un passo indietro. Dinamica che tanto ricorda quel non-voler far sentire presente in Grizzly Man.
Il mondo si rivela a chi lo attraversa a piedi. W. Herzog, Sentieri sul ghiaccio, 1978.
I due amici, oltre ad essere dei viaggiatori, sono anche dei narratori. Chatwin amava parlare, scherzare, raccontare le proprie avventure arricchendole con l’imitazione dei personaggi incontrati: era interessato alla mimica, come racconta la moglie ma anche Herzog, nell’aneddoto del loro primo incontro avvenuto all’aeroporto di Melbourne, contrassegnato dal flusso della loro conversazione. La capacità interattiva di Chatwin di saper cogliere le varie connessioni tra luoghi-persone-cose fa dire a Herzog che l’amico era internet prima che esistesse tecnicamente. Il manoscritto de L’alternativa nomade (raccolta di lettere 1948-1989) mostrato dal biografo al regista, ci offre una chiave di lettura per comprendere la teoria di Chatwin sul camminare e sul nomadismo. La tesi iniziata quando era studente di archeologia, tende anche un fil-rouge verso Herzog, con cui lo scrittore condivide la potenza del camminare a piedi. Il regista, infatti, nel diario di marcia Sentieri sul ghiaccio, racconta del pellegrinaggio intrapreso a piedi da Monaco a Parigi, nell’inverno del ’74, nel tentativo di salvare dalla morte la sua mentore, la regista del Cinema tedesco Lotte Eisner. Chatwin è stato un ammiratore del lavoro di Herzog: dal libro tenuto nello zaino, alla filmografia visionata. Nel particolare, Bruce era attratto dalla forma pura del cinema dell’amico, espressa attraverso le azioni estreme dei conquistatori dell’inutile, alla Fitzcarraldo. Il senso della sfida e della ricerca di autenticità traspaiono anche nei frammenti mostrati di Grido di pietra (Cerro Torre: Schrei aus Stein, 1991) in cui il regista rende omaggio alla memoria di Chatwin proprio attraverso la figura del protagonista che scala a mani nude e senza protezioni la montagna (considerata impossibile) Cerro Torre, in Patagonia.
Un’amicizia contrassegnata dal bisogno di conoscenza continua e che spinge entrambi a ricercare l’incontro con qualcos’altro da sé. Attraversare il confine è il movimento che caratterizza la fase liminare, secondo Van Gennep (I riti di passaggio, 1909) e che accompagna l’azione del transitare da uno stato all’altro, durante l’intera esistenza. Idea della fluidità, di un essere in continua trasformazione, viene rappresentata nel documentario, attraverso la figura ibrida (un uomo con gli arti di una rana) presente nella pittura parietale all’interno della grotta. I riti performativi per esorcizzare la paura della morte, compiuti dagli aborigeni australiani, affascinano Chatwin: nello specifico il modo di affrontare il momento temuto, compiendo un viaggio verso il posto del concepimento. Questo ritornare al luogo di origine diventa la chiave di lettura con cui lo scrittore interpreta la propria via dei canti, ovvero un modo di dare significato alla propria morte. Una rielaborazione della propria esistenza necessaria a Chatwin, consapevole di essere già malato di Aids in Australia. La presenza di Herzog, durante le successive fasi di avanzamento della malattia dell’amico, diventa una sorta di antidoto. Come quando lo invita sul set di Cobra verde del 1987, film-trasposizione del romanzo di Chatwin Il viceré di Ouidah del 1980, incentrato sulla tratta degli schiavi Africa-Brasile. L’autore inizialmente rifiuta a causa delle difficoltà di deambulazione ma non resiste quando Herzog gli propone una portantina a sua disposizione. Nel documentario ci viene mostrata la foto dello scrittore in piedi, durante la celebre scena della battaglia: le 800 donne che compaiono rappresentano, per il regista, una sfida di crow-control decisamente più gestibile rispetto alla follia distruttiva del protagonista Klaus Kinski. Chatwin testimonia la violenza fisica del miglior nemico di Herzog nella raccolta di saggi Cosa ci faccio qui? del 1988. Lo scrittore ha avuto modo di vedere anche la sequenza del documentario realizzato da Herzog nel 1989 per la televisione tedesca: Wodaabe, i pastori del sole in cui il biancore degli occhi e dei denti (considerati simbolo di bellezza) degli uomini della tribù sud-sahariana è messo in risalto dal trucco ed esibito durante la cerimonia performativa per concorrere con la bellezza delle donne. Il regista ricorda come queste immagini abbiamo alleviato parte della sofferenza dell’amico, facendogli riacquistare una temporanea lucidità. Se prima, nel documentario, la voce di Herzog ha espresso lo stupore nel vedere per la prima volta (tramite la mediazione del biografo) la sceneggiatura di Cobra Verde inviata all’amico e corredata dai suoi marginalia, alla fine, la voce del regista tradisce l’emozione nel testimoniare la propria presenza agli ultimi giorni dell’amico. Herzog recupera il controllo, spostando l’attenzione al dono ricevuto da Chatwin: lo zaino che lo ha accompagnato ai confini del mondo. Nonostante il regista abbia chiuso fisicamente (e simbolicamente) il taccuino in cui l’amico ha scritto per l’ultima volta, è a lui che spetta il compito di custodire e riconsegnarci il personale ricordo di Chatwin. Lo zaino è un passaggio di testimone, un oggetto denso di significato ma che Herzog porta sulle spalle quasi senza peso, mentre scala le montagne della sua Baviera, con passo leggero.
- The Beatles
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