Appunti sparsi su Mank di Jack e David Fincher

Appunti sparsi su Mank di Jack e David Fincher

April 30, 2021 0 By Simone Tarditi

Chi la vive, la Storia, la conosce meno bene di chi la scrive dopo” afferma Georges Simenon nell’autobiografico Memorie intime (Ed. Adelphi, 2009, p. 69). Una considerazione che, a estenderla, può andare di pari passo con un’altra: la Storia c’è chi la fa, chi la scrive, e chi la legge. Ecco come ci si sente di fronte a un’opera come Mank: davanti a un monumento eretto per far rivivere il passato, per celebrare la vicenda professionale (e umana) che sta dietro alla creazione di un mito.

Tutto parte da un individuo, munito di un foglio e una penna, che scrive, prende appunti, corregge, sistema o che, dettando, fa fare questa stessa cosa a un’altra persona. Herm Mankiewicz nel film, Jack Fincher nella vita reale. La natura cartacea di Mank è appalesata fin dal suo opening, con quelle panoramiche a schiaffo da dx a sx come se si stessero voltando le pagine di una sceneggiatura o del libro di un’esistenza. O entrambe le cose. Lo script, a cui il padre di David Fincher ha dedicato anni senza aver potuto fare a tempo di vederlo trasposto sullo schermo, è maneggiato dal regista come un testo sacro, una reliquia famigliare che già solo per questo fatto gli fa assumere un valore sentimentalmente più grande di ogni altro.

Ed è forse per questo motivo che Mank non è simile a nessun altro titolo della filmografia di Fincher. Diverso e perfetto, compresi anche quei secondi finali così démodé e che probabilmente sono stati impostati dalla dirigenza Netflix per far capire qualcosa in più agli spettatori che, pur non orientandosi all’interno di quel caleidoscopico panegirico, hanno resistito fino all’ultimo. Dalle locandine delle pellicole mute che il tedesco Emil Jannings interpreta negli USA ai ripetuti riferimenti alla lavorazione di Il Mago di Oz, passando anche per le gustose citazioni al film di Orson Welles che funge da perno di tutta la narrazione (le scimmie in gabbia, le composizioni di ghiaccio che si fondono, i fake newsreel, le frodi alle votazioni, …), Mank è un disgustato atto di riverenza nei confronti della vecchia Hollywood e delle dinamiche con cui funziona. Tale disgusto, espresso dapprima con semplice nausea e poi via via con reazioni stomacate, è quello esperito dal protagonista, consapevole di odiare una comunità di cui vuole più di ogni altra cosa esserne parte integrante. Saprebbe far altro se non dedicarsi alla scrittura? Sa di no. Il suo rifugio, il suo scudo, la sua arma? Lo scrivere, ergendosi di fronte alle forze che lo sovrastano e circondano come un personaggio uscito dalla mente di Cervantes o di Melville (“Just call me Ahab”, altra balenante meta-citazione, qui in doppio bilico tra Letteratura e Cinema). E che nel mondo hollywoodiano, dove tutto è all’apparenza meraviglioso e impeccabile, Herm sia mostrato quasi sempre sdraiato, seduto, appoggiato a qualcosa, claudicante o con l’andatura di un ubriaco, lo identifica come una mosca bianca che desidera essere considerata tale e al contempo meritevole del trattamento riservato ai vincitori.

Simone Tarditi