Perché Salò di Pasolini è ancora un’esperienza destabilizzante

Perché Salò di Pasolini è ancora un’esperienza destabilizzante

May 4, 2021 0 By Emilio Occhialini

Per un giovane d’oggi scoprire (e riscoprire) il cinema di Pier Paolo Pasolini è ancora un’esperienza destabilizzante nel momento in cui ci si confronta con un corpo di opere profondamente eterogeneo, stratificato e colto che si vorrebbe conoscere a fondo, oltrepassandolo nella semplice prima visione di un suo singolo titolo; perché è un cinema capace di indisporre con il suo figurativismo a tratti cerebrale e al tempo stesso generoso nel prendere per mano lo spettatore e guidarlo nella sua visione espansa del mondo e della storia.

Basti pensare in primo luogo alla produzione letteraria del poeta friuliano, con i suoi scritti pirati che affondavano dentro il corpo italiano dell’epoca sabotandone il conformismo morale, sociale e materiale; perché Pasolini osservava il mutamento italiano dagli anni in cui nascevano i nostri genitori, mentre i nostri nonni cercavano di lasciarsi alle spalle l’incubo della guerra e delle sue macerie, ora occultate da un miracolo economico che non doveva far temere per il futuro dell’Italia. Da sagace osservatore qual era, Pasolini riusciva poi a premere il grilletto della provocazione efficace, arrivando a innescare l’inconscio italiano dalla pressione vacillante di una democrazia che l’avrebbe risucchiato nelle sue zone d’ombra. Quando Pasolini scompare nella notte del 2 novembre 1975, le sue parole lasciano ancora intravedere il bagliore di una miccia che si stava per spegnere, disinnescando le inquietudini che “tentava” di comunicare per iscritto. Ci sono le famose parole di Cos’è questo Golpe?, Gli italiani non sono più quelli, Fuori dal palazzo, il romanzo incompiuto di Petrolio, l’abiura alla Trilogia della vita e poi… le pizze di Salò. Quest’ultime pronte a bruciare nella retina italiana, come se fossero le ultime armi impugnate da un bastardo senza gloria di tarantiniana memoria. Perché dalle sue parole scritte Pasolini aveva scoperto la forza comunicativa del medium cinematografico, dell’inchiesta documentaria, del lavoro sull’attore, della ricostruzione scenografica del tempo e della storia e della traduzione letteraria sulla pellicola cinematografica, costruendo attorno a questo insieme variegato e imprevedibile di processi creativi un immaginario con cui comunicare il suo pensiero al pubblico dell’epoca.

Guardando il titolo FINE di Salò si rimane ancora attoniti al taglio di tono con cui Pasolini distoglie il campo dalle malefatte dei quattro signori, assorti nei cori del Carmina Burana a “osservare un po’ meglio” i corpi vituperati dei loro giovani, mentre lo spettatore si congeda nei passi di danza repubblichini a tempo di Son tanto triste. Ma non ci si voglia ora concentrare sull’effetto respingente che deve aver provato un semplice spettatore all’epoca (che nonostante i Fulci, I Bava e gli Argento, non era pronto per una violenza di quel tatto), oppure la frustrazione di un critico cinematografico davanti all’opera postuma di Pasolini, che spesso ed erroneamente viene trattata ancora in alcuni volumi come l’opera testamentaria del regista. Cosa non vera, per il semplice fatto che se quella sera del 2 novembre Pasolini non fosse andato a recuperare le famose pizze rubate di Salò, avrebbe girato gli altri due capitoli della trilogia morte, ideale abiura cinematografica della trilogia della vita pugnalata già per iscritto dal poeta nel ’75.

Eppure guardare oggi Salò o le 120 giornate di Sodoma, significa scontrarsi con uno spettro storico ancora incandescente nel nostro immaginario contemporaneo e capace di veicolare un disagio verso la fine di un mondo, quella che Pasolini temeva sempre più come imminente nelle sue ricerche sul golpe di cui lui sapeva. Gli anni ’70 in Italia sono un periodo complesso e sfuggevole, avviluppati nella sua coltre opaca e omertosa, collocandosi su uno scacchiere globale sull’orlo del precipizio. Mentre in America esplodeva lo Scandalo Watergate, in Italia si sommava un’escalation di violenza contro le colonne portanti sulle quali il miracolo economico dei decenni precedenti si illudeva di reggere. Sono gli anni del primo attentato ad Aldo Moro, di Licio Gelli, del Massacro del Circeo, della strage dell’Italicus e delle Brigate Rosse, e la lista potrebbe andare avanti per pagine, mentre Pier Paolo Pasolini realizza la sua trilogia della vita con Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte; ma sono questi gli anni in cui, insieme a Sergio Citti e Pupi Avati, incontra il Marchese di Sade in una copia di Le 120 giornate di Sodoma, traslandole in un copione di gironi danteschi e ambientandole nella Repubblica di Salò degli ultimi anni del conflitto mondiale. Le uniche coordinate storiche vengono suggerite nell’introduzione recante il titolo Antinferno, mostrandoci l’intrusione del potere nel tessuto sociale di un paesino del Nord Italia. Da qualche parte vicino alla memoria storica del trauma di Marzabotto, i giovani vengono estrapolati dai loro nidi famigliari e traghettati verso la dimora in cui lo sguardo dello spettatore si fa prigioniero insieme ai corpi dei giovani italiani. E qui ci si scontra in un primo momento contro la ricerca poetica intrapresa da Pasolini nei tre film precedenti, innescando quel sentimento di rifiuto e disillusione esposto nell’abiura di quella trilogia della vita appena portata a termine: sentimento che avrebbe dovuto intensificare e sondare una nuova tappa del percorso cinematografico di Pasolini. Se ne Il fiore delle mille e una notte si ricercava con lo sguardo in un passato remoto ed eterno, dove fosse possibile riscoprire un’autenticità forte della vita, delle pulsioni più pure e innocenti di un candore umano dimenticato, con Salò tutto ciò non è possibile: nel fascismo che Pasolini reifica trent’anni dopo non c’è libertà per il corpo, non ci sono lembi di tenda che lasciano intravedere paesaggi esotici e suggestivi; tutto è compresso in una gabbia glaciale e algida, dove tutto è un limite per le vittime, imprigionate in uno spazio a-storico che riporta la perversione fascista negli anni 70. Ci sono solo pareti grigie e geometrie spaziali a direzionare lo sguardo di Pasolini, anch’esso volontariamente imprigionato in una messa in scena controllata e rigorosa, atta a registrare l’unica esplosione di libertà, quella della morte. Perché la morte in Salò è l’unica protagonista del film cui è permesso di varcare i “limiti dell’eternità”, come dice Il Vescovo, esprimendo il desiderio di voler uccidere mille volte un giovane imbecille dopo avergli puntato la pistola alla testa. La morte si materializza e esplode nel finale, ma prima si costruisce come un limite atto a innescare la performatività mostruosa dei quattro Signori che, non appena sentono un primo impulso sessuale suscitato dai racconti delle Megere, esercitano il loro reiterato potere consumistico sulla merce corporea a loro disposizione.

C’è un altro film dell’anno successivo a Salò che reimmagina la “fine” di una classe politica (e di potere), ed è Todo Modo di Elio Petri, già messo in relazione all’opera pasoliniana in numerosi scritti. La specularità e complementarità delle due opere si fonda sulla rappresentazione di una stessa classe politica (la medesima che i due registi denunciano in due diverse mentite spoglie temporali), plasmandola in due disposizioni stilistiche che circuitano le rispettive ossessioni politiche in una allegoria dell’assurdo; ma laddove Petri orchestra una fine grottesca e febbricitante di un potere allucinato pronto a implodere in se stesso con la morte dei suoi componenti (e del loro capo), Pasolini architetta l’inesorabile penetrazione dello spettro del potere in un clima di fervente eccitazione e carnalità, nel piacere fine a se stesso della vituperazione del corpo, spogliato di qualsiasi vitalità e individualità, profanata nel segno di un Potere autocelebrativo del suo vigore carnefice. I due rispettivi capolavori di Pasolini e Petri rimangono tutt’oggi oggetti oscuri, che rispecchiano perfettamente lo spirito dell’epoca e del monolitico travaglio di un decennio che, terminata la speranza del boom economico, cercava di riconfrontarsi con le ceneri del dopoguerra, cercando di ricostruirne l’impatto traumatico nell’inconscio italiano e della sua principale classe politica, quella democristiana, che avrebbe sconvolto i decenni successivi fino alla sua distopica fine immaginata da Petri.

Uno spettatore di oggi che guarda il film di Pasolini non esce indenne dalla visione, che dopo quasi cinquant’anni, e nonostante la violenza presente del film possa risultare oggi un po’ superata, continua a porsi indiscutibilmente come un oggetto che mai di dosso si scrollerà l’aura di testo proibito, pericoloso e maledetto, concepito e nato nel fiore di un’angoscia verso un paese e le sue istituzioni che traghettavano i suoi valori su acque incerte e malate. Una maledizione che ha segnato nel profondo la cinematografia italiana con uno dei suoi titoli più definitivi e critici; culmine di una ricerca poetica e cinematografica che Pasolini ha saputo vivere intensamente e oltre i limiti del possibile racconto cinematografico, oltre i limiti di una realtà di cui il regista rimane tutt’oggi uno dei suoi principali osservatori e narratori per immagini della filmografia nostrana e mondiale.

Emilio Occhialini