
Un altro giro di Thomas Vinterberg: dell’esistenzialismo contemporaneo
May 18, 2021 0 By Angelo ArmandiUn altro giro di Thomas Vinterberg (o il meno conviviale, più secco Druk della versione originale) è trasposizione in pellicola di un esistenzialismo contemporaneo, o della celebrazione della irrimediabile vulnerabilità umana. È un cinema materico, viscerale, che ribolle sotto l’impassibile fenotipo dell’antropologia scandinava. È il crollo definitivo dell’assioma mens sana in corpore sano, in favore di un più disperato, veritiero mens sana in corpore non sano.
L’universo di Druk non è popolato di moniti, né di compassione: è la fenomenologia della castrazione di un’intera generazione, di un’intera umanità. I quattro insegnanti protagonisti non hanno ragioni per esperire l’angoscia, eppure è là, palpabile, a permeare le loro vite come un’infezione perenne. Non c’è alcuna sociologia allegata, solo l’inevitabile dispiegarsi della vita adulta, della presa di coscienza delle responsabilità, del compromesso, della ristrettezza delle possibilità, e di una profondità di sguardo al passato che dissemina forse antichi rimpianti.
L’inevitabilità dell’angoscia è il paradigma del mondo, e gli uomini sono traghettati in una sopravvivenza svuotata della vita. Parole mai incrinate dall’emotività della voce, volti inespressivi, reazioni millimetriche a qualsiasi avvenimento, al pari della distaccata consapevolezza del declino, che di tanto in tanto sfiora le menti con distratta intuizione. La coscienza ed il corpo sono separati da una cesoia inossidabile. A riconnettere i due pilastri giunge l’occasione alcolica: quella teoria, vera o presunta, che alla completezza dell’uomo manca mezzo grammo di alcol per decilitro di sangue.
Si tratta, quindi, di recuperare il concetto della impossibilità alla completezza, di una perenne condizione di fragilità che frena la realizzazione del sé. Quella quantità di alcol genera euforia, lo scioglimento dei freni inibitori, l’allegoria del ricongiungimento con le proprie massime potenzialità. Il corpo obnubilato, allora, conferisce alla mente la salvezza dall’esistenzialismo.
La visione di Druk è apoteosi del cinismo, afferrando in pieno lo spirito contemporaneo di smarrimento, di inconsistenza delle cose e sfiducia massima nella capacità umana. Quello che accade ripercorre scientificamente l’evoluzione dell’alcolemia: dall’euforia al collasso dell’essere, una parabola sostenuta dalla prospettiva di tornare all’energica giovinezza, con la medesima spensieratezza e la medesima determinazione. Soprattutto determinazione: perché quello che incancreniva le vite dei quattro insegnanti non era illusione, e diveniva più grande al perpetuare della marcescenza del tempo. L’alcol consente di affrontare l’abisso senza timore, dal disgregamento di una famiglia fino alla programmazione accurata di un suicidio. In altri termini, il coraggio dell’autodistruzione.
Al cinismo sopraggiunge dunque il nichilismo: cosa è preferibile, l’angoscia della vita plastica o la distruzione della vita autentica? L’alcol è l’unica possibilità di sopportare il dolore, e di perpetuare una persistente decodifica allucinata sulla realtà. Un atteggiamento simile era stato operato dal cinema americano post-Vietnam, per convivere col disturbo post-traumatico da stress: per accettare quel mondo occorreva ricorrere alle correzioni (Taxi Driver) della mente, che anche la letteratura postmoderna americana ha percepito come tratto essenziale dell’uomo di fine secolo (Le correzioni di Jonathan Franzen).
Dunque quella vitalità posticcia, quel ritorno alla sessualità, o al recupero illusorio degli ideali su cui si è edificata l’antica identità sono desiderati anche nell’evidenza del collasso autodistruttivo: il ritorno alla castrazione è una minaccia peggiore delle macerie alcoliche.
Il ritorno alla sobrietà, infatti, riesce solo a recare i segni delle scelte perpetrate. Lo sguardo della macchina da presa, sempre in accordo all’approccio scientifico con cui si è sviluppata la parabola alcolica, sembra infine cedere alla riscoperta della volontà umana, come un elettrocardiogramma di cellulosa tenuto costantemente piatto da cui sbocciano i primi battiti.
I primi battiti, ovvero la possibilità di una scelta. Né la vita prima dell’alcol, né la vita nell’alcol erano caratterizzate dalla scelta. Una condizione perfettamente speculare all’esistenzialismo moderno, nato nella stessa terra (il reiterato Kierkegaard, unica bussola didascalica del film), secondo cui l’uomo era afflitto dalla pluralità della scelta, angosciato dalle infinite possibilità. Il ritorno alla scelta, nell’universo di Druk, si compone di una straniante, disperata lucidità (un Aut-aut, per tornare al filosofo danese): una esistenza asettica segnata dall’etica spenta e dalle responsabilità, o il ritorno all’alcol, e quindi all’estetica, all’immediatezza delle pulsioni vitali. Questo subitaneo conflitto, che sembrava serpeggiare dai primi fotogrammi del film, rimbalza con prepotenza sull’umanità intera.
Nella scena finale, come reincarnandosi nel Seduttore di Kierkegaard, gli insegnanti si uniscono ai festeggiamenti degli studenti appena diplomati, in un tripudio di alcol e frenesia dionisiaca. Si lanciano quindi in una danza alcolica, sotto le note di What a life di Scarlet Pleasure. Quella danza, seppure pregna di disperazione, è l’unica risposta alla necessità di fugare il dolore, e l’alienazione ubriaca diventa la sola alternativa di vita possibile.
- Tre piani: quel che resta di Moretti - October 18, 2021
- Un altro giro di Thomas Vinterberg: dell’esistenzialismo contemporaneo - May 18, 2021
- Galveston: il cinema e la morte secondo Mélanie Laurent - February 23, 2021
About The Author
"Remembering's dangerous. I find the past such a worrying, anxious place. The Past Tense."