
David Golder: dal romanzo della Némirovsky al grande schermo
August 17, 2021 0 By Simone TarditiChe il primo film parlato del regista Julien Duvivier e dell’attore Harry Baur sia un’opera sul denaro come motore pulsionale e come unico scopo di alcune esistenze ha un che di paradossale essendo, in fin dei conti, il denaro stesso a oleare la macchina produttiva del cinema. David Golder è anche il primo adattamento da un testo di Irène Némirovsky, autrice la cui fama mondiale arriva postuma con la pubblicazione del manoscritto Suite francese, autentico caso editoriale del decennio scorso.
Vicenda sulla ricchezza, sul cosa significhi materialmente accumulare beni preziosi (siano essi smeraldi, diamanti, obbligazioni, banconote, …), David Golder percorre gli ultimi anni dell’omonimo protagonista, un imponente anziano che ha fondato la sua intera esistenza sul fare speculazioni finanziarie e mettere da parte dei soldi che, in fin dei conti, per se stesso manco usa. Sì, perché attaccate al proprio corpo l’uomo ha due sanguisughe: la moglie, Gloria, e la figlia. Quest’ultima, Joyce, è una giovane scapestrata abituata a concedersi tanto a suoi coetanei quanto a uomini più vecchi, indirizzando le proprie moine a seconda dei mutevoli stati d’animo, alimentati ad alcol, che l’accompagnano. Nelle prime scene David si vede recapitare un telegramma da Biarritz con preghiera di spedire un po’ di liquidità perché le due donne sono rimaste a secco. Una richiesta all’ordine del giorno, nulla che lo scomponga perché, in maniera figurata, a Joyce i soldi scivolano tra le dita, formano buchi nelle tasche, vengono sperperati alla velocità della luce. E a proposito di velocità, ultimo “giocattolo” desiderato dalla ragazza è una Bugatti, automobile che, superata qualche iniziale ritrosia paterna, le viene presto regalata: amerà correre e strombazzare a bordo di quel bolide, sprezzante di chiunque incontri lungo la strada.
Gloria invece è creatura diversa, peggiore per certi versi. Pur avendo un abbiente amante, continua a farsi “campare” dal marito nella speranza che egli muoia il prima possibile per poter ereditare e risposarsi. La caratura della moglie di Golder è descritta nel dettaglio nella sola scena in cui il protagonista si sta riprendendo da un infarto: non solo, come una ladra, si china su di lui per attingere al portafoglio mentre è convalescente, ma approfitta anche di quel fragile stato di salute per estorcergli promesse e infondergli il dubbio che il padre di Joyce sia un altro e non lui. Ad aggiungere schifo allo schifo, si scoprirà poi che nel cerchio di amanti e genitori naturali s’innesca una dinamica incestuosa di cui non tutti sono a conoscenza.
Narrativamente di maggiore compattezza il romanzo, più dilatato nei tempi il film di Duvivier, David Golder procede con passo lento, pesante, ingombrante. Sono questi aggettivi tutt’altro che negativi. Il protagonista è un peso morto per tutti, a tratti anche per sé, al pari di un bue da cui ricavare più che si può finché campa. E in certo senso, anche dopo. Il suo cuore malato, sintomo di un organismo corrotto, lo condurrà alla morte. Il decesso è annunciato, preventivato. Con appresso una compagna chiamata angina pectoris, Golder dovrebbe far tutto nella vita tranne che sottoporsi a stress. Ma che rimane di un’esistenza votata all’ingordigia economica quando essa si ferma? Bisogna attendere di spegnersi e basta? Interrogativi che uno stanco e depresso Golder non si pone. L’amore per la figlia e l’unica voglia di renderla felice lo portano a lavorare ancora, condannandosi. Dopo le estenuanti trattative che hanno condotto alla chiusura di un accordo con i sovietici in merito a certe questioni petrolifere, il protagonista muore a bordo di una nave mentre sta facendo ritorno in patria. Con la macchina da presa puntata sul volto cadaverico di Golder, Duvivier fa annunciare al personaggio la propria morte mentre è ancora vivo, consapevole di stare crepando come ha vissuto, ossia da solo, confortato da uno sconosciuto a cui impartisce una serie di ultimi compiti da svolgere una volta spirato. La Nemirovsky fa qualcosa di più, scendendo nell’anima di Golder e restituendo al lettore l’impressione di cosa significhi lasciare il proprio corpo, di sapere che la vita sta cessando. Una descrizione precisa di come siano gli ultimi istanti prima di morire. A unire due punti in una stessa linea, solo il caso può far sì che entrambi, l’interprete Harry Baur e la narratrice Irène Némirovsky, vengano uccisi dal regime nazista: lui per le conseguenze delle torture inflittegli dalla Gestapo, lei ad Auschwitz.
Nel 1932 David Golder viene proiettato alla prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e due anni più tardi la Minerva lo distribuisce nelle sale italiane con il titolo La beffa della vita. Come riportato da Olivier Philipponnat, biografo della Némirovsky, nella postfazione di Film parlato e altri racconti (Ed. Adelphi, 2013), in un’intervista pubblicata sulla rivista «Pour Vous» nel giugno del 1931, ossia solo tre mesi dopo alla prima proiezione di David Golder a Parigi, avvenuta il 6 marzo presso la sala Gaumont lungo gli Champs-Élysées, la scrittrice parla dei suoi propositi sul cinema: “Non sto lavorando a un nuovo romanzo. Ma ho in mente alcuni progetti di film. I personaggi si muovono davanti ai miei occhi. Soltanto dopo invento i sentimenti (…)”. Ed è proprio nella succitata raccolta che si manifesta un interesse a tratti latente, a tratti incontenibile per le pellicole. Nel racconto La sconosciuta si descrivono sale aperte di pomeriggio a Parigi anche in piena guerra ed epiche trasferte di troupe nel cuore remoto dell’Africa per realizzare riprese autentiche, ma è ovviamente Film parlato, il racconto chiave del volume, a permettere di conoscere l’Irène Némirovsky cinefila, tra sintetiche e suggestive descrizioni di ambienti, al pari di un’autentica sceneggiatura, e fluttui all’interno dell’immaginazione della protagonista. Un’esperienza in bilico tra letteratura, psicanalisi e cinema. A ben vedere, lo stesso David Golder è un romanzo indubbiamente venato di suggestioni filmiche, certi passaggi, certe soluzioni fanno riferimento a usi e giochi di luce, dettagli e gesti come se la Nemirovsky lavori alla scrittura tanto con immagini quanto con parole. Una tecnica, la sua, che collima il vedere e l’immedesimarsi e che rifugge le vuote concettualizzazioni. A seguire, alcuni estratti dal libro, edito nel 2009 sempre per Adelphi.
“Le sue mani stringevano il piano del tavolo, producendo, con un impercettibile movimento un leggero stridio di unghie rapido e acuto. Illuminate dalla luce della lampada, le lunghe dita magre, ceree, cariche di pesanti anelli, brillavano sul mogano dello scrittoio Impero, scosse da un lieve tremito.” (p. 11)
“Golder poggiò piano il ricevitore sulle lenzuola e lo nascose con la coperta, quasi volesse soffocare la voce che ancora sentiva ronzare come un moscone imprigionato.” (p. 19)
“Pian piano, perché lui potesse vederla meglio, girò su se stessa, inarcando con orgoglio tutto il corpo, che era ancora molto bello; le spalle, le braccia, il seno alto e sodo avevano conservato, nonostante l’età, una freschezza straordinaria, un candore brillante, una grana dura e compatta come il marmo, ma il collo rugoso, la carne molle e tremolante del viso, quel belletto rosa scuro, che alla luce prendeva sfumature malva, le conferivano un’aria decrepita, sinistra e comica.” (p. 54)
“Viveva, come gli operai, in una baracca di assi marce. Era la stagione delle piogge. L’acqua trasudava dai muri, colava dai tetti sconnessi; all’imbrunire le enormi zanzare delle paludi sibilavano nell’aria. Ogni giorno c’erano uomini che morivano di malaria. Per non interrompere il lavoro li seppellivano di sera. Le bare rimanevano per tutta la giornata sotto i teloni fradici, luccicanti di pioggia, che sbattevano al vento.” (p. 118)
“La lampadina appesa al soffitto era alimentata da una corrente molto bassa e la luce vacillava, quasi stesse per spegnersi, come una candela al vento. Illuminava dei quadri sbiaditi, degli amorini dalle carni un tempo vermiglie, color del sangue fresco, ma ricoperte ora da uno strato di polvere nera. La camera era immensa, alta, spaziosa, con mobili di legno scuro e velluti rossi, un tavolo nel mezzo e un’antica lampada a petrolio, il cui globo di vetro, pieno di mosche morte, sembrava ricoperto da una spessa poltiglia nerastra.” (p. 167)
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