
Le Giornate del Cinema Muto 2021: appunti sparsi sulla 40ma edizione
October 11, 2021 0 By Simone TarditiLe Giornate del Cinema Muto festeggiano le quaranta edizioni con una forma ibrida: dal vivo a Pordenone (grazie campagna vaccinale e grazie green pass!) e sul web. L’apertura dell’edizione online è nel segno di Jokeren (Georg Jacoby, 1928), pregevole pellicola realizzata in più luoghi (Nizza, Berlino, Copenaghen, …). Una vicenda di amori e tradimenti che potrebbero venire alla luce attraverso lettere e oggetti, ma anche una storia sul gioco d’azzardo e sui flussi di alcol. L’atmosfera, resa tale dall’onnipresenza del carnevale a fare da collante tra i vari momenti della narrazione, è quella di una festa senza fine e le cui celebrazioni vanno avanti fino al collasso fisico di chi vi partecipa. Protagonista è una società ricca e annoiata che sotto la maschera dell’elevata condizione sociale nasconde molto spesso mostruosità. Ne deriva, sul piano cinematografico, una seconda parte del film molto più cupa rispetto alla prima. Accantonando la tendenza a ripetersi un poco, Jokeren è un film di grande eleganza e raffinatezza, frutto di quella multietnicità europea che nel cinema degli anni Venti ha saputo dare risultati ammirevoli ancora oggi.
Di simile fattura è Moral (Willi Wolff, 1928), un titolo che attacca apertamente il perbenismo di una società abile a nascondere sotto il tappeto il proprio marciume. L’attrice Ellen Richter interpreta un’attrice di teatro criticata da uomini dell’alta borghesia per i suoi spettacoli giudicati lascivi. È il bigottismo maschile al suo apice: a lei viene impedito di salire sul palco, ma al contempo coloro che pubblicamente la mettono sulla gogna le fanno una corte spietata e segreta. Inutile dire che la Richter si prenderà a sua volta gioco di ognuno di loro attraverso astuti stratagemmi, architettando persino di farsi filmare con gli spasimanti per poi ricattarli. Il regista gioca molto sul concetto di sfera pubblica vs. sfera privata, e la scelta di mostrare le città tedesche (si parte da Berlino e si finisce nella fittizia Emilsburg) perennemente sotto una leggera coltre di neve può forse essere spiegata con l’insistere sull’aspetto principale della trama: la patina di moralità che copre la realtà per quella che è, in attesa che essa venga naturalmente svelata.
Eccezion fatta per un titolo, la selezione delle pellicole statunitensi non si è fatta particolarmente notare quest’anno, almeno nella versione online. Phil for Short (1919) di Oscar Apfel si sofferma a lungo sull’equivoco generato dalla protagonista nel mostrarsi conciata da maschio per illudere di avere un fratello gemello (seguono argomenti cardine quali amore, desiderio, matrimonio imposto). Niente male, soprattutto se si osserva da vicino la cura per certi dettagli che denotano la cultura dei realizzatori (esempio: un cartello riproduce Cicerone denuncia Catilina, quadro di Cesare Maccari, pittore italiano deceduto tra l’altro proprio l’anno in cui il film esce nelle sale), ma si vedano anche tutti i riferimenti al greco antico come lingua, alle danze che generano scandalo, ai testi di Ovidio. Sui valori del passato e sul progresso che avanza inesorabile si basa anche An Old Fashioned Boy (1920) di Jerome Storm, commedia che vede un giovane uomo fare di tutto per costruire una vita perfetta al fianco della donna che ama, senza però consultarsi con quest’ultima. Esiti prevedibili: il fidanzamento si rompe e ci vuole una nuova presa di coscienza da parte di entrambi prima del lieto fine. Tra regressioni a stadi infantili e richieste di quarantene per sospetti contagi, il film discorre sulle difficoltà della crescita allungando a tratti un po’ troppo il brodo. Di maggiore impatto è, per ovvi motivi produttivi e registici, Fool’s Paradise (1921) di Cecil B. DeMille: opera sull’innamoramento come condizione che può condurre alla follia e, metaforicamente, alla cecità. Un poeta che non riesce a far pubblicare i suoi componimenti poiché rifiutati da ogni editore vive nel ricordo di una celebre donna dello spettacolo incontrata una sola volta. Pensa solo a lei e solo con lei desidera stare, ma il processo d’idealizzazione lo porta a illudersi e infine a rimanere deluso. Contemporaneamente, una rivale metterà a disposizione il proprio amore qualsiasi sia il costo da pagare: che sia ferire senza rendersene conto o che sia volersi sostituire all’altra accettando anche di annullarsi. Sontuoso nella messinscena, Fool’s Paradise è un film indimenticabile, nella completa cifra di un cineasta come DeMille.
Sul fronte italiano Guido Brignone dirige Maciste all’inferno (1926), una produzione Pittaluga. “Diavoleria in 5 atti”, la pellicola trascina lo spettatore in un continuo saliscendi tra la superficie del mondo e il male che si annida nel sottosuolo. Da una parte: oasi di pace, verde rigoglioso, frutti, bellezze, prospettive di felicità. Al suo opposto: torture, sofferenze, spiriti diabolici con corpi unti, lunghe barbe, sguardi arcigni e arpioni nelle mani. L’eroe Maciste viene conteso tra queste due dimensioni e lotta per ristabilire un ordine tanto nella sua vita quanto in quella della donna amata. Del film è eccellente il comparto scenografico, del trucco e parrucco, della fotografia (per non parlare degli effetti speciali curati da Segundo de Chomón) e, su tutto il cast, Elena Sangro si ritaglia uno spazio a sé sia per gli abiti succinti (un modello di reggiseno a cerchi concentrici sembra preso direttamente in prestito da uno di quelli indossati da Theda Bara nel Cleopatra del 1917) sia per il seducente sguardo che mira a rendere Maciste suo captivum. Le influenze sono in generale numerose, dal drago sputafuoco, molto simile a quello usato da Fritz Lang per I Nibelunghi, al Faust (non il coevo capolavoro di Murnau, ma il testo di Goethe).
Merita un discorso a parte la parentesi asiatica. Tre corti datati 1910 prodotti dalla Vitagraph con setting giapponese: Love of Chrysanthemum, su una moglie che s’invaghisce di un bell’americano di passaggio (qualche eco della pucciniana Madama Butterfly, ma anche tanti stereotipi culturali); Ito, the beggar boy, tentativo di strappare lacrime andando a raccontare la vicenda di un orfano adottato (si fanno notare le medesime scenografie riciclate dal precedente nonché un insolito uso di graffi trasversali sulla pellicola per ottenere l’effetto della pioggia); e infine Hako’s sacrifice, parabola sull’affrancamento di uno schiavo con il presunto intervento divino nella manifestazione di un miracolo (che in verità viene compiuto da un essere umano), il più convincente dei tre. C’è però anche spazio per un film coreano, Geomsa-Wa Yeoseonsaeng (1948), aka Il pubblico ministero e l’insegnante. Sì, stupisce l’anno di realizzazione, così lontano dal periodo universalmente riconosciuto per il cinema muto (1895-1930 indicativamente, sebbene le nazioni asiatiche conquistino il sonoro quasi tutte anni dopo). Anche qui un racconto di sofferenza: bambino delle elementari rimane senza genitori e finisce col perdere anche la nonna. Così povero da non permettersi neanche da mangiare, viene aiutato da una insegnante della sua scuola. Dieci anni dopo le restituirà il favore. L’unica narrazione è costituita dalla voce angosciosa ed enfatizzante di Sin Chul, leggendario byeonsa.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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