Il West Side Story di Spielberg è nel segno di una rara amarezza

Il West Side Story di Spielberg è nel segno di una rara amarezza

December 22, 2021 0 By Simone Tarditi

… rara per il suo cinema, per il suo modo di intrattenere un pubblico che gli è fedele dagli ormai lontani anni Settanta. L’amarezza del nuovo West Side Story segna una crepa con il resto della filmografia spielberghiana: saranno i tempi post-pandemici (le riprese sono avvenute nell’estate del 2019, in un mondo completamente diverso) o la loro percezione, sarà l’anziana età sopraggiunta, sarà la volontà di mettere di lato progetti più spensierati (si veda l’aver consegnato ad altri il timone del nuovo capitolo di Indiana Jones), ma mai quanto oggi il regista sembra stare percorrendo una strada nel segno della maturità, nei temi più che nello stile. E a ciò si aggiunga il semi-autobiografico The Fabelmans, già girato, che dalla sinossi ha i connotati del “film della vita”, quello con cui voler essere ricordato dai posteri. O anche la dedica, sui credits di West Side Story, al padre morto a 103 anni a luglio 2020, che, per un titolo che indirettamente tratta dello scollamento tra genitori e figli, ha un valore del tutto particolare.

Gli scontri tra gang rivali, l’intolleranza, la tensione razziale, l’amore impossibile tra un bianco e un’ispanica (entrambi figli di immigrati, più volte sottolineato), lo sberleffo nei confronti delle forze dell’ordine, il sudore e il selciato, le ringhiere e i condomini fatiscenti, tutto è stato preservato. In termini di fedeltà, West Side Story è una riedizione rispettosa come poche altre. Eppure è proprio qui che gli spettatori possono sentirsi disorientati: se accedono al film per divertirsi, ne usciranno sconsolati; se pensano di trovare la copia carbone della pellicola di Robert Wise con giusto qualche aggiornamento, si accorgeranno di quanto tali aspettative vengano disattese. E sia chiaro: che Spielberg si allontani quanto può dal West Side Story del 1961 è un merito, non una colpa. Ci si trova però di fronte a quello che è probabilmente il suo titolo più violento, cupo, deprimente, e non tutti possono sentirsi contenti di ciò, purtroppo.

L’anello di congiunzione – e la campagna promozionale ha fatto di tutto per rimarcarlo – è costituito da Rita Moreno, premio Oscar per il film antecedente. In veste di vegliarda, l’attrice fa da ponte tra un vecchio e nuovo mondo, al di là dell’ambientazione che è invece rimasta la medesima. Il mondo in questione non è però quello cinematografico scricto sensu dal momento che Spielberg realizza quanto di più vicino alla Hollywood classica si sia visto dal 2016 di La La Land a oggi, quanto piuttosto quello di un pubblico che viene da interrogarsi ci sia attualmente o possa esserci in futuro. Gli americani hanno dato la loro risposta, basta guardare i magri dati del box office. Che il nuovo West Side Story sia un flop o meno, niente toglie smalto alla pregevolezza del risultato raggiunto. Musiche, coreografie, recitazione, fotografia, direzione generale: i livelli sono eccelsi. Cosa non ha funzionato quindi? Quale elemento non ha attratto la gente nelle sale oltre alla cieca fiducia in recensioni severe? Un cast “anonimo”? Il tempo darà le sue risposte. Ritornando a Rita Moreno, ecco che nella sua figura sembra racchiudersi tutto il significato di questo West Side Story: l’anziana donna incarna un passato di cui in pochi si stanno prendendo cura, un modo d’intendere l’esperienza del cinema che è svanito via via fino a scomparire di colpo. Se la Moreno è l’emissaria di una Hollywood che non esiste più e di cui si stanno estinguendo gli ultimi esemplari, chiaro è che questa condizione di fragilità vada curata intervenendo da vicino, celebrando e favorendo una rifioritura, anche se una tantum, anche se solo per qualche scena. Né l’interprete né il musical sono pezzi da museo, bensì hanno una voce potente che può ancora risuonare, come Spielberg dimostra. L’ultima inquadratura, nel pieno della desolazione e della tragicità di una sequenza di grande potenza emotiva, meriterebbe di echeggiare in questa strana epoca per il cinema e non solo.

Simone Tarditi