Bersagli di Peter Bogdanovich: per un metacinema ricercato

Bersagli di Peter Bogdanovich: per un metacinema ricercato

January 18, 2022 0 By Simone Tarditi

L’intento dell’“operazione metacinema” – quasi fosse esso stesso il titolo di un film – è appalesato già nei primissimi minuti di Bersagli, o addirittura dal primo fotogramma di girato: un corvo in volo che gracchia disperato, come un esemplare fuggito dagli opening credits di Gli uccelli (Alfred Hitchcock, 1963). Poi, gotiche atmosfere di cartapesta, un castello sul mare, le onde in tempesta che s’infrangono sugli scogli, una losca figura in interno, un giovane Jack Nicholson che salva una ragazza in pericolo, la violenza del mare, mentre contemporaneamente scorrono i nomi delle maestranze che hanno preso parte alle pellicole (che sono due: Bersagli e quella in essa contenuta, La vergine di cera). Un film in un film, uno si conclude e s’innesta sull’iniziare dell’altro in un passaggio che è anche nello spazio: termina il montaggio di prova e ci si ritrova con l’attore protagonista e la produzione dentro una saletta privata.

Bersagli esce all’indomani della supernova New Hollywood, ossia in un 1968 dove gli sconvolgimenti socio-culturali stanno investendo tanto il mondo quanto il cinema. Peter Bogdanovich, su pressione dell’amico Roger Corman, papà d’adozione di alcuni tra i migliori bambini prodigio nati tra la fine degli Anni Trenta e i primi Quaranta, si lancia nell’avventura di un lungometraggio che, a differenza di molte successive regie, racconta il rapporto-scontro non solo tra presente e passato, bensì pure tra vita e morte o, meglio, tra l’aspettativa di vita e la prefigurazione della morte. Boris Karloff nei panni di un sé medesimo con altro nome (Byron Orlok, cognome di murnauiana memoria) realizza di non aver più nulla a che spartire con quell’epoca e di volersi ritirare dalle scene. Sente che il suo tempo è arrivato, quindi tanto vale ufficializzare la rottura col mondo prima del trapasso. Un giovane cineasta, guarda caso interpretato da Peter Bogdanovich, avverte di essere abbandonato proprio nel momento di assoluto bisogno: Orlok infatti avrebbe dovuto essere il protagonista di uno script su lui cucito. Il film si farà? Sì, in un qualche modo. La narrazione si ribalta e si unisce a quella secondaria che vede un killer compiere un massacro in due fasi, garantendo allo spettatore un finale in cui il cinema annulla ogni divisione tra una realtà immaginata e una finzione realistica. In bilico tra amarezza e sorrisi.

Dagli spot per Anatomia di un omicidio (Otto Preminger, 1959) alla programmazione tv di Codice penale (Howard Hawks, 1931), passando per il deposito all’aperto di vecchie e ingombranti scenografie, il drive-in per famiglie e pomicioni, i meccanismi di funzionamento di un proiettore mostrato da vicino, i copioni rilegati, le bobine accatastate, in Bersagli tutto viene filtrato dall’occhio di un cinefilo qual è Bogdanovich, che più di tutti gli altri di quella generazione (Friedkin, Coppola, De Palma, con la parziale eccezione di Scorsese, …) ha voluto mantenere un piede in un passato non suo (si veda il suo impegno nell’intervistare e nel diventare amico di tanti colossi dell’epoca classica, da Ford a Welles) e l’altro nell’industria vera e propria. Inevitabile perciò che l’opera prima sia ancora un ibrido e che su questo aspetto fondi la sua essenza. Bersagli è una creatura nata dall’assemblaggio di parti apparentemente lontane tra loro che, insieme e legate strettamente, danno vita a qualcosa di originale pur non avendo di originale quasi nulla. Certi ingressi nel mondo del cinema sono benedetti, quello di Bogdanovich ne è esempio, per capirne la portata basta concentrarsi sulla sua professione, su quei primi anni di successo, sul talento, e lasciar perdere i gossip morbosi, come la storia della coniglietta di Playboy che molte testate (di settore e non solo), deceduto a sua volta Bogdanovich, hanno deciso di disseppellire solo per attrarre qualche lettore in più.

Simone Tarditi
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