Mio figlio Nerone: diario di una perplessa Gloria Swanson finita tra gli italiani

Mio figlio Nerone: diario di una perplessa Gloria Swanson finita tra gli italiani

April 22, 2022 0 By Simone Tarditi

In un comunicato per United Press poi riportato il 21 dicembre 1955 anche sulle pagine del quotidiano Tonawanda News, Gloria Swanson scrive un reportage mentre è in soggiorno lavorativo a Roma, sul set di Mio figlio Nerone. La diva del Muto ha infatti accettato di interpretare il ruolo di Agrippina in un film realizzato a Cinecittà perché le permette di sperimentare qualcosa di diverso dalla trafila di personaggi tutti identici a Norma Desmond che a Hollywood le stanno proponendo sulla scia del successo di Viale del tramonto. Questo è il motivo principale, l’altro pare essere stato il desiderio di lavorare a stretto contatto e condividere lo schermo con Vittorio De Sica, uomo di cinema per il quale nutre profonda stima.

“Dire che sono la persona più disorientata di Roma è un eufemismo. È il mio primo film italiano, ed è a colori e in Cinemascope – un’esperienza completamente nuova per me”, comunica Swanson, seguitando poi a elencare il cast principale che, tolto il già menzionato De Sica (“di fama attoriale oltre che registica”), vede la nascente star francese Brigitte Bardot (su cui glissa: voci di corridoio parlano di astio reciproco) e Alberto Sordi (“mi hanno detto che è una specie di giovane Bob Hope italiano”).

Si prende qualche riga per descrivere Steno (Stefano Vanzina), il regista di Mio figlio Nerone, perché secondo lei è l’emblema di come si faccia cinema nello Stivale: “(…) è un uomo piccoletto che immagino avere la pazienza di Giobbe. Conosce solo qualche parola di inglese e quella che gli sento dire più spesso è per l’appunto ‘patience’. Ora capisco perché lui e altri connazionali utilizzano così spesso questa parola quando lavorano con gli americani. Nell’industria cinematografica statunitense le tabelle di marcia sono fatte per essere rispettate, e così anche gli orari per lavorare, dormire, mangiare. E una sceneggiatura, per la quale ci sono voluto mesi di scrittura, è un documento sacro da non far manomettere al primo che passa. Qui invece tutti hanno un approccio casuale o, diciamo, alla “latina” per questo genere di cose. Infatti, non penso che in fondo si preoccupino realmente di qualcosa e di conseguenza le ulcere, che sono in cima alle malattie di Hollywood, qui sono a quota zero”.

Come dare torto alla sconcertata Gloria Swanson … a lei che, tra i tanti grandi, ha lavorato anche assieme al re degli sperperatori di budget e delle riprese infinite: Erich von Stroheim, nello sciagurato Queen Kelly … o quasi è stata spellata viva da un leone in Male and female per la regia (e l’irresponsabilità) di Cecil B. DeMille … o quando per poco non si è spezzata le ossa cadendo al suolo da un’altalena in Zaza di Allan Dwan … o quando, ancora, ha dovuto ipotecare gli immobili di proprietà per contribuire al finanziamento di Sadie Thompson. Di fronte a storie come questa le difficoltà di Mio figlio Nerone paiono inezie. Nell’articolo, Swanson gioca con la sua stessa immagine di diva che, in quanto tale, non deve dare l’impressione di essere mai soddisfatta. Bisogna quindi immaginarsela incontentabile. Eccola, eccola lamentarsi: “(…) tutti gli italiani si ritagliano dalle 13 alle 16 per fare siesta, ma questo non vale per il mondo del cinema. Il primo giorno sono stata sul set fino a mezzanotte (…). Il giorno dopo ho avuto il muso lungo perché alle 6:30 sono stata svegliata dopo solo quattro ore e mezza di sonno: alle 9:30 dovevo affrontare di nuovo le cineprese!”. Su questo punto bisogna darle ragione, anche se viene difficile pensare che la troupe romana non si sia concessa ogni giorno una o due ore di libertà per la pausa pranzo.

Gloria Swanson, privata sia del sonno necessario per non far invecchiare la pelle sia di una sceneggiatura di ferro a cui fare affidamento, senza capire in fondo se stia interpretando un ruolo tragico o comico, si confronta infine con un duplice aspetto che la confonde ulteriormente, quello del lost in translation e dell’estro estemporaneo: “Nerone parla italiano, Poppea francese e io inglese, così nessuno di noi sa quel che dice l’altro. Potete immaginare le difficoltà nel recitare così. E fatto ancor più strano è che gli attori italiani sono inclini a improvvisare, inventandosi i dialoghi via via che procedono”.

Nonostante quanto appena riportato, l’articolo si chiude con una nota non lamentevole sull’esperienza in corso: “(…) è divertente! E amo tutti quanti”. Finito tutto, chissà se si sarà pronunciata allo stesso modo. Più probabile all’opposto.

Simone Tarditi