
Venezia79: A Man di Kei Ishikawa, triplo gioco di specchi
September 2, 2022 0 By Simone TarditiNella sezione Orizzonti della 79ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia fa capolino A Man di Kei Ishikawa. Il rischio è che, oscurato da titoli attorno ai quali c’è più attesa (Ti mangio il cuore, con Elodie, solo per citare un successo annunciato), rimanga un film invisibile ai più. Sarebbe un peccato e va da sé dirsi fin da subito che meriterebbe una distribuzione italiana almeno nel circuito d’essai.
A Man (Tit. originale Aru Otoku) narra dell’indagine di un avvocato per fare chiarezza su un misterioso scambio di identità tra uomini. Uno di questi ha cambiato vita e frequentazioni per almeno due volte, prendendo in prestito il nome da altrettante persone e generando un certo caos su chi sia stato chi. Pare impossibile che un fatto del genere possa avvenire nell’Era digitale di un paese evoluto come il Giappone, ma evidentemente tra gli anni Ottanta e i primi ’00 no. Il legale si fa sempre più un investigatore man mano che la matassa di fili ingarbugliati si dipana, fino a quando egli stesso vedrà messe alla prova le sue certezze su chi sia e chi siano le persone che lo circondano.
Inizia come un’impacciata storia d’amore tra due giovani adulti, una lei non più sposata e con un figlio, un lui con evidenti problemi nel relazionarsi col prossimo, e dopo trenta minuti (alla morte di lui e alla ri-vedovanza di lei) il ritmo di A Man ha un brusco cambio, quasi iniziasse un film dai tutt’altri toni. L’ora e mezza che segue è la migliore, la più convincente. La detective story – a tutti gli effetti una caccia ai fantasmi al pari di un noir classico, tra vecchie foto, articoli di giornale, interrogatori, piste sbagliate – apre la via al film per altre considerazioni. La principale verte su un quesito inevitabilmente posto allo spettatore: cos’è, in fondo, la verità? Una domanda che oggi forse vale la pena porsi più di ieri. Attraverso i social network (Facebook, soprattutto) A Man mostra come si possa replicare l’esistenza di qualcun altro per adescare prede o per far uscire allo scoperto un diretto interessato. Basta un nome, delle informazioni credibili, qualche foto e il gioco è fatto. Possibilità offerte da almeno un quindicennio e ancora sfruttate da molti per sdoppiarsi in altri con fini diversi. A Man va oltre la disamina sul potere dei fake account. Osserviamo ognuno di personaggi principali aver fatto qualcosa di simile in maniera diversa. L’avvocato protagonista è nato in Corea, ma ha voluto naturalizzarsi giapponese. In qualche modo è anch’esso un cambio d’identità. Un ripulirsi. O si veda anche il caso di quel figlio che avverte la presenza del padre assassino dentro di sé e decide di sottoporsi al “martirio” della boxe per torturare il suo corpo lungo un doloroso percorso di purificazione. Il costante ritorno dei biglietti da visita, un lasciapassare autorevole per presentarsi al prossimo, lo si inquadri pertanto in un preciso intento del film: mostrare la facilità con cui si può ingannare chi si ha di fronte e se stessi.
Identità, verità, destino, ecco le tre componenti di A Man. L’una lo specchio dell’altra, pertanto ribaltabili, duplicabili all’infinito. Un concetto esplicitato tanto dall’incipit quanto dal finale, che nel caso del film di Kei Ishikawa significa dire un tutt’uno. Viene mostrato il facsimile, quindi un falso, del dipinto La reproduction interdite (1937) di René Magritte: un uomo di spalle il cui riflesso nello specchio è di spalle anch’esso. Il regista vi aggiunge il suo protagonista, fronte-retro. E siamo di nuovo a tre componenti.
Into this world we're thrown".
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