TFF40: Appunti sparsi (e avvelenati) su Dalíland di Mary Harron

TFF40: Appunti sparsi (e avvelenati) su Dalíland di Mary Harron

December 5, 2022 0 By Simone Tarditi

Stupisce la china discendente di Mary Harron la quale sembra ormai volersi fare ricordare unicamente per American Psycho. Nell’ultimo quindicennio – tolto il convincente adattamento seriale del romanzo Alias Grace – la regista non ha realizzato nulla di memorabile sebbene si sia presa molto tempo tra un progetto e l’altro. La campagna promozionale di Dalíland era già cominciata con il tour nei festival di Charlie Says (alla Mostra del Cinema di Venezia era passato così ai margini da essere notato da pochi, segno lampante?), ma al confronto col disastroso film su Salvador Dalí quello sulla setta di Manson meriterebbe, a distanza, una pioggia di encomi.

Che sia colpa della pandemia che ha fatto slittare le riprese o che sia a monte un problema di sceneggiatura poco importa: Dalíland fallisce come biopic e non è neppure in grado di restituire un’atmosfera autentica circa l’ambiente culturale nella New York anni Settanta. E già a partire da come la metropoli viene ritratta si capisce la scarsa cura generale: stock footage di strade e palazzi ad alternare le scene, come se buttare a caso qualche sfocata e granulosa immagine di repertorio potesse amalgamarsi naturalmente con la laccata fotografia del film. Pur con qualche posticcio e imbarazzante flashback, l’opera di Mary Harron (scritta assieme al marito) si focalizza sull’ultima e piena di distrazioni fase della carriera del pittore surrealista, ma quello che emerge è più il ritratto di un pagliaccio che di un vero artista. Non che Dalí fosse farina da far ostie o che non fosse anche lui in fase calante, ma il soffermarsi in maniera ossessiva sul suo comportamento infantile, sulla sua passione per un lifestyle da baccanale, sul suo non contare artisticamente più nulla (economicamente, invece, sì), rende il film un loop che genera noia più che disgusto.

Avevano quindi ragione le recensioni negative provenienti da Toronto: Dalíland non vale nulla. Paradossale è che, nonostante appaia come caricaturale, Ben Kingsley nei panni del protagonista costituisce l’aspetto più funzionante. L’attore è l’unico che sembra credere in quello che sta facendo ed è un peccato che Dalíland dedichi egual numero di scene all’altro protagonista principale, un ragazzetto che dovrebbe emblematizzare il percorso da innocenza a corruzione fatto di tappe obbligate per trovare un proprio spazio nel mondo. Il problema è che non se ne può più di titoli di questo stampo, soprattutto quando il cliché del lupanare in ciclo infinito non solo non ha ormai più nulla da insegnare o raccontare, ma è anche falso nella sua descrizione così ingabbiata nei codici di un film che vorrebbe essere per tutti e che invece non interesserà a quasi nessuno. Una piccola, ma attesa, delusione in chiusura della quarantesima edizione del Torino Film Festival, manifestazione che nel complesso ha saputo offrire una programmazione memorabile e di ottimo intrattenimento.

Simone Tarditi