
Niagara, anomalie americane
May 12, 2023 0 By Simone TarditiLa spinta a inseguire qualcosa di mai ben definito – eppure sempre impossibile da raggiungere – è il motore che guida i protagonisti di Niagara, pellicola di Henry Hathaway che si distacca dagli standard statunitensi dei primi Anni Cinquanta per aprirsi a un’idea di cinema inusuale, dominata da silenzi, tempi apparentemente morti, misteri irrisolti e una dose di lascività che si era andata a perdere con la cosiddetta era pre-code (ossia quasi un ventennio prima) e che qui, ai limiti della censura, torna a farsi preponderante unicum. Non esaminando il personaggio interpretato da Max Showalter (impiegato tutto d’un pezzo, rigoroso nel lavoro quanto ottuso nella sfera privata), gli altri tre principali costituiscono delle irregolarità rispetto ai modelli di riferimento: la donna che sa essere indipendente (Marilyn Monroe), il reduce dalla Corea (Joseph Cotten), la mogliettina perfetta (Jean Peters).
Prima di venire a sapere che sia fedifraga e che stia architettando l’omicidio del marito per fuggire con l’amante, della diabolica figura interpretata da Monroe scopriamo la tendenza di vivere a caso e d’innamorarsi del primo che capita. Il ritratto riflette quello che i suoi produttori cinematografici volevano ottenere, ovverosia dipingere un bellissimo e irraggiungibile archetipo femminile che fungesse da sogno erotico in fase di veglia. Nel simil-biopic Blonde la breve parentesi dedicata a Niagara riproduce questo intento: una scena di sesso si raccorda alle cascate del film di Hathaway proiettato in una sala sui cui sedili la stessa protagonista e due amici stanno consumando l’atto. Tornando più esplicitamente a Niagara, molte sono le inquadrature di Monroe sdraiata a letto (provocante sotto le lenzuola del motel e, ricoverata in ospedale, sotto uno stato di trance), sculettante per strada, ammiccante in vestito rosa. A riprova di quanto già scritto sopra è chiaro, ogni minuto che trascorre, quanto Monroe debba attivare negli spettatori (maschi e femmine) una serie di rigidi preconcetti e di pulsioni governate dal principio dell’ambivalenza. Inoltre, la tragicità con cui si compie il suo destino (strangolata dal marito che avrebbe voluto far uccidere) oggi pare come la punizione per l’impurità dei suoi pensieri e delle sue azioni messa in atto da un rappresentante della società patriarcale autorizzato per genere di appartenenza a usare ogni mezzo necessario al fine di ristabilire l’ordine. Tra mostri vince sempre il più forte, questo è il senso.
L’individuo impersonato da Cotten, a proposito, è una sciagura vivente. Veterano di guerra, egli non è riuscito a riadattarsi alla normalità. Questa la sua colpa più grande: essere sopravvissuto al fronte ed essere ritornato a casa con profondi traumi. Come molto cinema e molta letteratura hanno insegnato, è vittima di una società che non sa che farsene di ingranaggi fallati come lui. Si noti in Niagara la ricorrenza di cartelli segnaletici e di indicazioni per la città, emblemi di un ambiente urbanizzato dove tutto è un percorso tracciato per essere seguito con precisione, e si noti come invece l’ex militare vi si muova solitario e senza una direzione. E quando quel mondo in cui non riesce a collocarsi lo crede scomparso, pur essendo ancora vivo chiede che tutto venga lasciato così com’è, nella falsa certezza che il cadavere ritrovato sia il suo e non quello dell’assalitore.
Sigilla il trittico di anomalie americane presenti in Niagara il personaggio più enigmatico di tutti, quello interpretato dall’attrice Jean Peters. Questa donna – diversa in tutto dall’altra descritta prima – la vediamo magneticamente attratta da Cotten anche se non c’è e non viene neanche mai data a intendere alcuna connotazione di natura sessuale nel suo cercare e ricercare quest’uomo dall’inizio al termine della storia (il film preserva una specie di liceità di fondo essendo entrambi sposati ad altri partner). Pare quindi un’attrazione più verso l’anormalità che l’immoralità, un interesse dato dalla curiosità per il carico di stranezze che si porta dietro Cotten, uno sconfitto per il quale si può provare pena. Oppure c’è di più? Il finale offre una risposta in grado di aprire a interpretazioni di carattere psicanalitico: e se Peters, insofferente e insoddisfatta, covasse nell’inconscio un cupio dissolvi tale da spingerla al limite estremo della vita stessa?
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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