Fury, il War-Porn che ci restituisce l’orrore e la follia della guerra

Fury, il War-Porn che ci restituisce l’orrore e la follia della guerra

June 8, 2015 0 By Simone Tarditi

Due definizioni che sono state date del film echeggiano nella mente di chi scrive: war-porn e plot-less. Due critiche al modo di fare Cinema di David Ayer (il cui prossimo Suicide Squad è già uno dei film più attesi e chiacchierati del 2016), che riguardano più coloro che si arroccano su posizioni d’altri tempi, che il valore del film nel suo essere Vero Cinema allo stato puro.

Il film non ha una trama “classica” e fa spettacolo della brutalità, questo è vero.
Ma questa è la guerra: furiosa nelle sue conseguenze, folle nelle sue teorizzazioni.
Non è un trafiletto su un giornale o un libro di scuola. La guerra è desolazione, corpi bruciati, impiccagioni, stupri, devastazione di opere d’arte, roghi, fame, sporcizia, malattie, epidemie, sciacallaggio, distruzione, stanchezza, riduzione dell’individuo a carne da macello e conseguente annichilimento di ciò che ci rende esseri umani.

Fury non vuole raccontare la Seconda Guerra Mondiale, ma solo un episodio di essa, per certi versi anche marginale. E nel farlo s’impone con forza e decisione a war-movie epico nella sua definizione classica.
Forse con istinti suicidi, narrativamente e cinematograficamente, ma pur sempre totale nel dipingere quei tratti caratteristici degli uomini al fronte, purtroppo spesso mistificati nella Storia del Cinema.

Gli attori si sono auto-sottoposti ad un regime durissimo per calarsi totalmente nel ruolo dei soldati: Shia LaBeouf si è fatto rimuovere un dente (sanissimo), si è inflitto delle cicatrici ed ha trovato Dio, tutti hanno dormito accampati nel fango e sotto la pioggia, Michael Peña ha imparato a guidare il carrarmato usato nel film, Logan Lerman ha riportato numerose ferite durante le riprese, nessuno si è fatto la doccia per giorni e tutti hanno abitato il Fury anche nei momenti di pausa, ci hanno pisciato dentro, e Brad Pitt ha fatto a botte con Scott Eastwood (figlio di Clint) perché sputava il tabacco sul carrarmato (seguiva alla lettera le indicazioni della sceneggiatura).

Protagonista del film è anche il tank che dà il nome al film: Fury, l’unico carrarmato Tiger I al mondo, originale dell’epoca, ancora funzionante. I realizzatori del film hanno fatto il possibile e l’impossibile per farlo uscire dal museo nel quale stava immobile e fargli percorrere un’ultima cavalcata, quasi come quel cavallo bianco, immacolato nella sua perfetta bellezza, che all’inizio di Fury si fa strada, da solo, tra carcasse umane e scheletri d’acciaio e ferro, nella fangosa Germania nazista.
Tutto ciò ha reso Fury il film di guerra più sporco degli ultimi anni, l’unico davvero credibile nella rappresentazione del cameratismo tra soldati, quasi alla deriva, al tramonto della Seconda Guerra Mondiale.

Chi quindi cercava una trama delineata secondo i canoni classici della narrazione è rimasto deluso.
Chi voleva invece una versione patinata della violenza, si è trovato di fronte l’orrore raccapricciante.

E alla luce della follia di qualsiasi guerra, che raramente i registi delle ultime decadi sono riusciti a rappresentare adeguatamente, preferendo concentrarsi spesso su risibili ritratti d’eroismo a stelle e strisce, il film di David Ayer avanza rumoroso, demolendo tutto ciò che ha ereditato dal passato, per restituirci il frastuono e il bagliore della guerra, che noi, fortunatamente non abbiamo conosciuto, se non attraverso i ricordi dolorosi dei nostri nonni.

Simone Tarditi
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