
Southpaw, la vendetta di un pugile suonato
September 2, 2015Billy Hope (Jake Gyllenhaal) è completamente nudo e mezzo-accasciato nella doccia dello spogliatoio, col viso coperto di lividi e sanguinante. Non riesce neanche ad aprire gli occhi, come un cucciolo appena venuto al mondo. Piange e chiede se c’è ancora qualcuno. Ma non è rimasto nessuno.
La desolazione è il tema principale di “Southpaw”, scritto da Kurt Sutter (“Sons of Anarchy”) e diretto da Antoine Fuqua (“Training Day” e “Brooklyn’s Finest”).
Billy Hope è un ex sbandato, cresciuto nella miseria di un orfanotrofio (nel film, in maniera velata, si fa riferimento a possibili abusi sessuali subiti in tenerissima età dentro la struttura) e a cui la vita non ha mai regalato nulla. Un individuo solo, che è riuscito a raggiungere l’apice, nell’olimpo dei pugili, solo grazie alla donna della sua vita, Maureen (Rachel McAdams, reduce dal recente “True Detective 2”), solo per vedersi portare via tutto ciò che ha di più caro.
Il film, lungi dall’essere un capolavoro del genere, resiste agli attacchi (giustificati) della critica nei confronti di un prodotto che avrebbe potuto essere sicuramente confezionato meglio.
La sgangherata narrazione e il montaggio che tenta di salvare una regia non solidissima tuttavia non impediscono a “Southpaw” di andarsi a inserire in quella lunga tradizione sulla boxe che percorre tutta la storia del cinema, dalle origini ad oggi, passando attraverso quei grandi capolavori come “Lassù qualcuno mi ama” (1956) con Paul Newman e “Toro Scatenato” (1980) con Robert DeNiro, per non parlare della celeberrima saga di “Rocky”, di cui sta per uscire un settimo capitolo, spacciato per spin-off, intitolato “Creed”.
È doveroso dunque porsi una domanda: un tema così spolpato, cosa può raccontare di nuovo? “Southpaw”, con tutti i suoi cliché, non sembra dare una risposta soddisfacente, ma sembra rimescolare le carte quando si tratta di mettere in scena i suoi personaggi e non tanto le loro storie.
Quello che rimane, a conti fatti, non è solo un’ottima interpretazione di Jake Gyllenhaal, che sembra anelare una grande prova dopo l’altra (“Prisoners”, “Enemy”, “Nightcrawler – Lo sciacallo”), ma innanzitutto un personaggio, Billy Hope, a cui è facile affezionarsi.
Il nostro protagonista non è solo un pugile suonato in cerca di vendetta, è un marito/padre ignorante, totalmente succube della moglie, incapace di prendere una benché minima decisione della vita.
Billy è come un cane randagio, che viene educato ed addestrato, e che necessita continuamente di cure.
Pertanto, il film è (involontariamente, credo) uno specchio della mente sconnessa di Billy, nel raccontare un vortice di eventi che si susseguono spesso senza ricorrere ai canoni hollywoodiani, perfettamente rodati, della narrazione (qui intervengono una sceneggiatura non eccelsa e un montaggio, a tratti, raffazzonato) e un universo popolato da persone meschine (il manager, interpretato dall’onnipresente Curtis “50 Cent” Jackson, e l’antagonista della storia, il pugile Miguel “Magic” Escobar) e da individui che combattono con loro stessi, come Tick Wills (Forest Whitaker), allenatore di Billy.
“Southpaw” rinuncia ad incorniciare il ritratto di un uomo che vince sull’avversità della vita, ma piuttosto si sofferma sul deragliamento esistenziale di Billy, dovuto soprattutto al suo temperamento, e sulla fatica di (ri)costruire qualcosa quando viene a mancare ogni singolo punto di riferimento. E ci riesce benissimo.
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