
The Martian – Sopravvissuto, l’incrollabile fede dell’uomo
October 5, 2015Ridley Scott è da decenni un regista bollito? Può darsi, ma nessun altro oltre lui, a quasi ottant’anni di età, riesce ancora a tenere tali ritmi in quanto a produzioni (quasi un film all’anno) così imponenti. Il successo dei suoi film è quello di portare sul grande schermo soluzioni semplici per la fetta più grande di pubblico, quella che cerca il giusto e puro intrattenimento, ormai privo quasi totalmente di quel tocco autoriale che un regista come Scott sembra aver esaurito coi suoi primi tre indiscussi e indimenticabili capolavori: “The Duellists”, “Alien” e “Blade Runner”.
Detto, fatto. “The Martian”, uscito nei cinema italiani la scorsa settimana, sta registrando incassi notevoli in tutto il mondo, a riprova del fatto che la formula di Scott sta funzionando benissimo.
Come può sentirsi un uomo dato per morto e abbandonato su Marte? Questo è un interrogativo che il film di Ridley Scott, tratto dal romanzo di Andy Weir e sceneggiato da Drew Goddard (“Cloverfield”, “The Cabin in the Woods”), finisce col tralasciare per concentrarsi maggiormente su come un essere umano può reagire ad ogni tipo di avversità pur di sopravvivere. E se i toni di “The Martian” possono farlo avvicinare a quella che, senza mezzi termini, possiamo definire un’americanata, tuttavia non si sfiora mai quel limite dell’ignobile e dell’orrendo, pur spingendosi verso quel confine, ma senza mai superarlo.
Il concetto del “riportiamolo a casa” riferito all’ennesimo eroe yankee del cinema hollywoodiano è sorretto da quel patriottismo e da quella propaganda a stelle e strisce che non vorremmo più vedere in un film, ma che possono essere accettati alla luce del fatto che la trasposizione cinematografica punta volutamente a delineare un personaggio spaccone e per nulla incline all’abbattimento e alla rassegnazione.
Che sia un caso o meno, è curioso che “The Martian” rappresenti per Matt Damon un ritorno sia ai temi di “Interstellar” (l’isolamento su un pianeta lontano) sia a quelli di “Salvate il soldato Ryan” (andare a salvare un sopravvissuto figlio americano).
Che i film di sopravvivenza non siano una novità è presto detto, ma non si può negare che negli ultimi anni questo genere di produzioni siano aumentate. E, quasi mai, ce ne si può lamentare.
Più di Robert Redford sperduto in mare aperto (“All Is Lost”) e forse anche più di Sandra Bullock nell’orbita terrestre (“Gravity”), Matt Damon (qui, Mark Watney) si ritrova a essere l’uomo più solo dell’universo intero, ma non sembra volersene curare troppo.
Alla base di un film come “The Martian”, e ancor prima e con maggior cura nel romanzo di A. Weir, vi è il concetto di adattamento dell’essere umano, che modifica l’ambiente circostante a lui per poter sopravvivere. Per Mark Watney, ciò ha a che fare con una riorganizzazione di materiali e strumenti per perseguire un fine diverso rispetto a quello che era il compito principale deciso dalla NASA e, nel far ciò, il protagonista è guidato da un ottimismo e da un attaccamento alla vita che sfiorano quasi una fede religiosa nei confronti di tutto ciò che esiste.
Non è un caso quindi che l’unico modo di cui Watney, un botanico, può disporre per riscoprire il fuoco su Marte sia quello di fornirsi di un crocifisso, unico oggetto di legno di tutta la spedizione.
La costruzione di una serra al chiuso, in cui poter coltivare delle patate (grazie alla NASA, che ne aveva nascosto un sacchetto per il Thanksgiving Day) è un impresa ardua e non priva di ingegno. Il protagonista ci si applica come un custode della vita, quasi come un frate con l’orto di un convento, accompagnando questa attività alla ricerca di un modo per comunicare in primis con la Terra (la riconquista della parola scritta) e scoprire un modo per poter “levare le tende” da un pianeta inospitabile. Marte, infatti, non è ancora il luogo del futuro per una colonia di esseri umani. Di lì bisogna andarsene il più in fretta possibile.
La storia di “The Martian”, più che essere una morale sul “non arrendersi” e sul “resistere sempre”, è quella dell’evoluzione dell’Uomo e della trasformazione del suo habitat ai fini della sopravvivenza.
Watney compie esperimenti, commette errori e, come un uomo scaraventato in una condizione quasi primitiva, si erge sulle avversità per ritrovare in se stesso un punto di riferimento.
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