The Revenant, una perfezione desolante

The Revenant, una perfezione desolante

January 23, 2016 0 By Angelo Armandi

The Revenant, regia di Alejandro G. Inarritu. Un’opera sontuosa che vive (o sopravvive) della propria perfezione, talmente plastica e ricercata da allontanare qualsiasi empatia da parte del fruitore, e resta là, nella propria masturbazione, al solo scopo di essere ammirata.
Pare che Inarritu abbia deciso di spostare altrove il senso del prodotto finale, attraverso la transizione di Birdman, che pure abbondava in estetismi, mantenendo nella narrazione il cuore propulsivo dell’opera. Quando non ci si curava della pronuncia del suo cognome, Inarritu concentrava l’essenza delle cose nell’intimità della narrazione (21 grammi), i cui toni melodrammatici, che facilmente avvicinavano lo spettatore alla pellicola, potevano solo lasciare intuire un certo narcisismo di fondo.
Lo spostamento dello stesso patetismo sull’immagine, tra l’altro una situazione non così estranea a certe virate del cinema nostrano (Youth di Paolo Sorrentino, come sineddoche), necessita di un’operazione più complessa, perché lavorare sul senso estetico dell’immagine cinematografica (e per estensione della tecnica che lo compone) richiede una chiara intenzione poetica, senza la quale si è dinanzi ad una fotografia estetizzante, che nulla dice al di fuori delle sue forme lussureggianti.
In altri termini, la sovrabbondanza del tecnicismo di Revenant non produce alcun senso e, pertanto, non ha niente da comunicare. Una storia millimetrica, prevedibile (ma questo è lo spettegolare dei cinefili annoiati), che non rientra in alcuno schema precostituito, laddove la vendetta è labile, e la sopravvivenza in certi tratti poco credibile, dilatata nel tempo (156 minuti) e nello spazio (campi larghissimi, senza fiato, intoccabili nella loro purezza). Vengono così poste le basi per una narrazione di cacciatori di pelli e di un protagonista, l’amato (qui commiserato) Leonardo DiCaprio diligente, in una delle prove attoriali più estreme, laddove venga da chiedersi se sia necessario strisciare per terra con la bava alla bocca per acquisire un consenso globale di bravura, così come l’anno prima era strisciato in maniera identica l’Eddie Redmayne dell’imbarazzante La Teoria del Tutto. Da queste basi, in cui l’unico elemento di narcisismo narrativo potrebbe essere la corporeità del protagonista o il cinismo sconfinato del villain Tom Hardy (forse l’unico elemento di verosimiglianza, se non di bravura, dell’opera), deriva la riflessione sull’apparato tecnico, la cui liceità è vincolata ad uno stretto legame con il senso della narrazione stessa.
Emmanuel Lubezki coordina la fotografia, ed Innaritu, scaltro, sfrutta tutta l’energia e la spiritualità che quella stessa immagine riesce ad evocare, disperdendola nel proprio autocompiacimento. La macchina da presa si sposta frequentemente verso l’alto, indugia su un cielo coperto di fronde, accetta lo sguardo fisso del protagonista su di sé e il suo alitare, accoglie visioni angeliche incorniciate di luce e si sposta con lentezza in lunghi piani sequenza e virtuosismi di movimento. Poi il taglio necessario, che riporta spesso a un flashback che si libera in fretta del suo obbligo per la narrazione e si attarda su immagini ferme, a richiamare un senso che è fortemente simbolico. Ma quale simbolismo? Quale idea dovrebbe trapelare dalla metafora dell’immagine?
Lavorare sulla tecnica, come dicevo, fa presumere un chiaro intento poetico. Terrence Malick, che si serve dello stesso Lubezki per esprimere tutte le potenzialità dell’inquadratura, è l’autore che spesso in Revenant viene richiamato, o copiato, in maniera piuttosto snervante. L’immagine, in Malick, dilata la narrazione e indugia su elementi specifici allo scopo di ricercare, con una fusione di calma e ossessione, una spiritualità che è insita nella Natura come elemento scaturito direttamente dal Divino. Allora la sua propensione ad elevare al cielo la macchina da presa è la ricerca agognata di Dio, un tentativo impossibile di avvicinarlo (The Tree of Life), così come il suo lento spostarsi sulla superficie del mondo è la contemplazione della vita, del senso perduto dell’uomo e della sua debolezza dinanzi alla problematicità della morte (La sottile linea rossa). Accanto alle immagini, Malick suggerisce il senso tramite le parole pronunciate dai personaggi fuori dal campo, quasi si trattasse di voci acusmatiche che, dal basso della loro fragilità, esplorano l’anima e cercano di interpretarla.
Verrebbe da chiedersi la ragione dell’ossessione di Inarritu per la descrizione della Natura ostile, del suo soffermarsi a contemplare un raggio di sole che rifrange su gocce d’acqua. E’ la contemplazione di un mondo arcaico, vergine, spietato, raccontato con una bellezza da togliere il fiato. Troppo impegnati a rincorrere il redivivo, ci si dimentica della sua vendetta, della crudeltà della Natura stessa, perché si rimane ammaliati dalla sua folgorante, seppure spesso brutale, rappresentazione.
L’intenzione di ridurre al minimo il dialogo per inseguire una narrazione per simboli è espediente radicato e di ottimo successo, ove ben realizzato, poiché l’immagine cinematografica basta a se stessa e può esplorare i meandri dell’uomo (Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn come apice di un discorso formale in questo senso, o meglio, per essere più vicini al contesto analizzato, l’eccellente Valhalla Rising, dello stesso autore). Se però non esiste alcun lavoro poetico, né l’intenzione di rappresentare simboli, né l’esecuzione calibrata dell’analisi di un mondo selvaggio in rapporto all’essere umano, rimane il tecnicismo spurio. E lo si percepisce pesantemente nella propria esuberante presenza, ancor che inutile o bisognosa di attenzioni.
E dopo un po’ si comincia a sonnecchiare, aspettando che dopo interminabili campi il redivivo compia la sua vendetta. Perché si sa che questa vendetta, anche se impantanata nell’assurda dilatazione temporale, prima o poi avverrà.

Angelo Armandi