
Venere in Pelliccia, tra masochismo e finzione borghese
January 29, 2016
“E il Signore Dio lo colpì e lo mise nelle mani di una donna.” (Vangeli apocrifi)
Venere in pelliccia, regia di Roman Polanski. Un’opera che trova essenza nella scrittura e nell’architettura teatrale, seguendo uno schema già adeguatamente approntato nel precedente Carnage. Si semplifica ulteriormente il territorio su cui si svolge l’azione, lasciando ad una scenografia teatrale e a due personaggi il compito di estrinsecare la diegesi: si tratta di raccontare un provino fuori orario per una pièce che è adattamento dell’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch. Polanski, assieme allo sceneggiatore David Ives, calibra con esattezza il discorso sul rapporto di coppia, esplorando nuove modalità per riflettere su una delle sue antiche ossessioni, che in passato erano state sviscerate con una carnalità più diretta (Luna di fiele), puntualizzando l’accento su certi costumi borghesi. Il protagonista Thomas (Mathieu Amalric) è intrappolato in un intonaco d’ipocrisie che riveste l’uomo della società civile, costretto da un atteggiamento borghese ad una esistenza tranquilla ed annoiata che sopprime gli istinti, le insoddisfazioni, la reale natura che si nasconde nelle piccole perversioni. Giunge allora l’aspirante attrice Vanda (Emmanuelle Seigner), apparentemente volgare e ignorante, ad impersonare la Venere della pièce, che per ironia della sorte reca il suo stesso nome.
La storia della Venere deriva direttamente da Sacher-Masoch, che nel libro racconta del suo percorso di crescita attraverso le punizioni corporali della zia, che indossava una pelliccia e lo sferzava con la verga. Da quella esperienza, il ragazzo comprese che “niente è più sensuale del dolore e che niente è più eccitante della degradazione”, essenza stessa del masochismo come mezzo per esplorare la più intima natura di se stessi, privati di ogni convenzione sociale. Il masochista adora la sua donna, la eleva a ruolo di dea, accetta di ricevere la sua punizione quale “divina crudeltà” e di essere “rovinato, ridotto a nulla”, con la promessa del godimento finale. Il masochista pretende quel dolore, ne è inebriato, comanda il partner affinché lo soddisfi nel suo desiderio.
Qualche decennio prima, David Lynch aveva deciso di inserire il discorso del masochismo in Velluto Blu come mezzo più efficace per giungere al cuore dell’animo umano, svelarne i lati più controversi attraverso l’acquisizione di ruoli nella coppia, quasi riproducendo le stesse esperienze del giovane Sacher-Masoch, nella lunga sequenza centrale di Kyle MacLachlan nascosto dietro l’armadio a spiare la seducente Isabella Rossellini. Questo stesso discorso serviva inoltre ad escludere la presenza del sadismo nella coppia, che invece si compone del masochista e di colui che lo soddisfa, relegando il sadico al ruolo di un terzo estraneo il cui obiettivo non è l’amore, ma la perpetuazione afinalistica della violenza.
Polanski decide di esplorare l’ambiguità di coppia rafforzando il ruolo della società come elemento oppressivo sulle pulsioni, a differenza di quanto aveva fatto Lynch, scegliendo di disseminare gli elementi significativi nel dialogo tra Thomas e Vanda, come marchio del senso dell’opera. I due cominciano a recitare parti della pièce per testare la preparazione di Vanda, ed è sottile lo sconfinamento nella realtà, che avviene progressivamente, con disinvoltura.
E’ nei ricchi dialoghi che si nasconde l’inganno della recitazione, che diventa il solo mezzo per potersi riappropriare della verità sulla propria identità. Thomas (aka Polanski, oserei, dato il ritorno costante di alcuni temi particolarmente caldi, di cui la coppia rappresenta un cardine dai tempi di Cul de sac fino a La morte e la fanciulla), il quale ha inserito troppo della sua vita nella trasposizione della Venere, non sembra recitare, ma raccontare se stesso, il solo modo per vivere senza la maschera borghese che è costretto ad indossare. E’ egli stesso l’erede di Masoch, e Vanda, quale Venere, riappare improvvisamente per tornare a tormentarlo. Un continuo gioco di sguardi, di movimenti sensuali, di una fisicità che esprime tutto l’erotismo della Seigner di cui si era ben consapevoli (ancora Luna di fiele). Thomas è sconvolto dall’erotismo che esplode dalla crudeltà, ne è terrorizzato, ma lo agogna così tanto da essere costretto a proseguire nella recitazione, ad attingere vita da lei, riemergendo sempre più faticosamente dalla parte. Firmando un contratto fittizio di sottomissione, come prevedeva la pièce, i confini tra realtà e recitazione sfumano del tutto, e Thomas è assediato dall’idea della scoperta di quella sua anima nascosta tra le pagine, dagli occhi languidi di Vanda, fino ad accettare un scambio di ruoli nella coppia, creando l’illusione di una temporanea cessione del potere (elemento psicologico della coppia che già Lynch aveva integrato nelle dinamiche del masochismo, dimostrando una fine conoscenza dell’opera di Masoch).
La donna allora accetta di consegnargli l’umiliazione finale, e l’uomo diviene vittima e carnefice al tempo stesso, inerme e legato ad un oggetto di scena di forma fallica (e con un rossetto sulle labbra che deriva dallo scambio dei ruoli e che apre una piccola parentesi sul discorso dell’identità ne L’inquilino del terzo piano). Subisce così la punizione della divinità incarnata nella donna, che da oggetto erotico perturbante si proietta in una dimensione metafisica assurgendo finalmente al ruolo di Venere. E nel farlo, subentra il terrore, e la pellicola si gonfia di un surrealismo che non dà risposte, ma impone nuove domande irrisolte, e si frantuma l’erotismo che aveva plasmato l’intera narrazione.
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