The Hateful Eight, il teatro di figura di Tarantino ambientato nel profondo Wyoming

The Hateful Eight, il teatro di figura di Tarantino ambientato nel profondo Wyoming

February 4, 2016 0 By Francesca Sordini

Ma quanto si diverte Tarantino. Fa quel che gli pare, non deve rendere conto a nessuno, è talmente popolare e di sicuro successo che la Weinstein Company, la sua casa di produzione americana dai tempi di Bastardi senza gloria, gli dà carta bianca su tutto. Anche i capricci da primadonna per la prima stesura della sceneggiatura, pubblicata online dopo una fuga di notizie, con conseguente dichiarazione di non voler lavorare più al progetto, fanno comunque parte del personaggio.

Tarantino ne è talmente consapevole che stavolta s’inserisce nel film in prima persona. Ma non, come aveva fatto altrove, in qualità d’interprete. In The Hateful Eight Tarantino spezza la narrazione esattamente a metà, un attimo prima del plot twist che sconvolge le carte in tavola, e riavvolge la pellicola, commentandola con voce fuori campo, di qualche minuto. E’ più dunque che un semplice personaggio: è il burattinaio dello spettacolo. A fare i sofisticati, diremmo che si pone nei panni di Dio. A noi ricorda molto Henry Fielding, scrittore inglese che nei suoi romanzi aveva la geniale abitudine d’intervenire per riabilitare benevolmente i personaggi, di tornare indietro, di balzare in avanti nonché di ingannare il lettore svelandogli qualcosa e celandogliene un’altra.

Insomma, una prospettiva onnisciente. Tipica del burattinaio, che, ad esempio, nello spazio chiuso e ben delimitato del teatro di figura fa interagire tra di loro vari personaggi. Tarantino fa forzosamente incontrare otto figuri, più o meno loschi, in un emporio nel mezzo del Wyoming, dove dovranno pernottare per cause di forza maggiore. Cinque di loro arrivano in diligenza, tra questi, uno di loro (Kurt Russell) ha a malincuore concesso un passaggio ad altri due disperati (una bufera è in arrivo, speranze di sopravvivere all’aperto meno di zero). Ammanettata a lui c’è Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), assassina con una taglia sopra la testa di 10 000 dollari: comprensibile che Russell non voglia condividere la diligenza del buon O.B. (James Parks) con nessuno. Mette pertanto in guardia il maggiore Warren (Samuel L. Jackson) e Chris Mannix (Walton Goggins): qualunque tentativo di fregargli lo stipendio sarà crudelmente vendicato.

All’emporio di Minnie trovano un cowboy zoticone fissato con il suo diario personale (Michael Madsen, mai così sozzo), il boia dai modi affettati Oswaldo Mobray (Tim Roth), un veterano sudista della Guerra Civile (Bruce Dern), che nel corso del film non si alzerà mai dalla poltrona, e Bob (Demián Bichir), verace messicano cui Minnie ha affidato l’emporio durante la sua assenza. Nessuno si fida di nessuno, nessuno è chi dice di essere, tutto sospettano di tutti. E’ la riproposizione in chiave western di Dieci piccoli indiani… e poi non rimase nessuno di Agatha Christie, e infatti The Hateful Eight si avvicina molto, per circostanze e svolgimento, agli enigmi della camera chiusa, di cui il romanzo di Christie è l’esempio principe. Gli otto personaggi sono inchiodati in uno spazio di pochi metri quadrati, c’è il sentore che qualcosa non vada, eppure nessuno si azzarda a fare la prima mossa. C’è da pensarci su, esattamente come Sweet Dave mentre gioca a scacchi col vecchio confederato seduto in poltrona. Per la situazione e le interazioni proposte, il film assomiglia molto a Le iene, solo con più soldi investiti e migliore resa finale (lì gli attori si dovevano portare da casa i costumi).

Visivamente perfetto e mirabilmente congegnato, The Hateful Eight ha l’azione ridotta al minimo e il dialogo ipertrofico. Che non significa vaniloquio o pomposità: The Hateful Eight è una sinfonia di dialoghi qua e là impunturati dalle musiche, sempre sottotono, di Morricone. Ad essere omaggiata qui è la parola. Ha ragione quel certo critico americano: l’azione è totalmente irrilevante. Se c’è, quando c’è, è calibrata, anche se violenta (di Tarantino comunque stiamo parlando). Come in altri mirabili esempi del suo cinema, la storia è solo un pretesto per far parlare i personaggi il più a lungo possibile, anche se qui tocchiamo quasi le tre ore. Che stavolta abbia passato in segno, sconfinando nel manierismo? Può darsi. Ciò non toglie che The Hateful Eight sia grande cinema, e come tale vada riconosciuto.

Francesca Sordini
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