The End of the Tour, il nostro David Foster Wallace

The End of the Tour, il nostro David Foster Wallace

February 11, 2016 0 By Simone Tarditi

INTRODUZIONE – MI POP-TART ES SU POP-TART

Barba di qualche giorno, al massimo di una settimana. Bandana in testa, confortante come una coperta di Linus, un retaggio di tempi trascorsi sotto il caldo torrido di Tucson e la paura di prendere la scossa per via del sudore che cola sulla tastiera, ma non assolutamente per attrarre le nuove generazioni e proclamarsi mentore o profeta (anche se, col suo romanzo, finisce col diventarlo). Conoscenze matematico-filosofiche, ma un appetito insaziabile per ogni genere di prodotto televisivo (dalle pubblicità ingannatrici ai programmi spazzatura), per ogni film prodotto negli ultimi cento anni (predilezione particolare per gli action-movies), per la musica pop e orecchiabile (un tè assieme ad Alanis Morrisette? Un sogno).

Questo è il nostro David Foster Wallace di esattamente 20 anni fa, quando era appena uscito Infinite Jest, il romanzo chiave degli anni Novanta americani, il giorno dopo moriva il leggendario Gene Kelly (quello di Cantando sotto la pioggia, per intenderci) e qualche settimana dopo Braveheart vinceva il premio Oscar come miglior film (A David sarà piaciuto?).

Lo chiameremo David, Wallace, Dave, DFW, Dave Wallace, David Foster Wallace, lo scrittore, quello bravo.

Parlare di David Foster Wallace vuol dire cercare di descrivere un universo in espansione. Ci si perde.

THE END OF THE TOUR – IL FILM

The End of the Tour è un film meraviglioso che dovreste vedere tutti. Potremmo fermarci qui. Evitare una cerebrale celebrazione di David Foster Wallace perché le sue opere parlano chiaro e con grande forza. Evitare di cercare di spiegare perché sia giustamente considerato uno dei più importanti scrittori dell’ultimo secolo. Evitare di citare qualche sua considerazione perché tanto, alla fine, non gli si renderebbe comunque giustizia.

Per farla breve, The End of the Tour ci mostra una manciata di giorni trascorsi insieme da David Lipsky (scrittore e giornalista) e David Foster Wallace, durante gli ultimi momenti del tour promozionale di Infinite Jest. Chiacchiere, parole, pensieri in libertà, giudizi, ricordi. Il film non è nulla di più, ma è comunque di una grandezza da far impallidire ogni altro film del genere uscito negli ultimi decenni. Esso prende il libro e lo scompone e ricompone, cambiando l’ordine cronologico delle conversazioni tra i due, ma senza perdersi mai, sempre seguendo un frammentato flusso di parole, suoni, immagini dal perfetto senso logico.

I due attori, Jesse Eisenberg (Lipsky) e Jason Segel (Wallace) sono straordinari. Regia e sceneggiatura sono ottime. Fine. Il film va visto. Il film va rivisto.

Quello che segue è uno sguardo sul libro, sul film, su David Foster Wallace e anche su David Lipsky.

Non vuole essere nient’altro di più di un atto d’amore per una storia incredibile. Perché tutti siamo un po’ come David, tutti e due i David.

 

HO PASSATO LA MAGGIOR PARTE DELLA MIA VITA DENTRO BIBLIOTECHE – SCRIVERE, STARE BENE

Due David, due scrittori, cinque giorni insieme. La conversazione che intercorre tra intervistato e intervistatore salta da luogo a luogo, da un argomento all’altro, tra parentesi aperte e alcune mai chiuse, note a fine pagina, frammenti di discorso, idee abbozzate, colte e ignoranti citazioni. Si parla di tutto, da ciotole per cani a Keanu Reeves, da Die Hard a Kant, da Derrida alla rivista Playboy. Un flusso interrotto da viaggi in auto e in aereo, telefonate e soste dal benzinaio, conversazioni con i cani di Wallace e nastri terminati. Non c’è un solo istante in cui non pulsi l’animo da osservatori del mondo dei due David. Anche quando non si parla direttamente di Letteratura, ogni argomento viene sezionato in tutte le sue parti e descritto come se si trattasse di una vera narrazione.

Non è questa la sede per cercare anche solo di tratteggiare le complesse linee guida della scrittura di un peso massimo come David Foster Wallace. Utilizzeremo le parole di Don DeLillo, un gigante della Letteratura Americana, nonché un grande punto di riferimento del nostro David:

La sua opera tende ovunque a conciliare ciò che è difficile e consequenziale con un fraseggio che è giovanile, spontaneo e spesso spiritoso, contrassegnato qua e là da qualche piccola curiosa intromissione del gergo di strada.
(…) Persiste una vitalità, un vigore sbigottito di fronte alla complessa umanità che troviamo nella sua narrativa, alla perdita e all’inquietudine, all’offuscarsi della mente, alla mancanza di fiducia in se stessi. Ci son frasi che sparano raggi di energia in sette direzioni. Ci sono racconti che seguono il tortuoso senso di isolamento di un personaggio.
(…) Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro.
(…) Ora lo conosciamo come uno scrittore coraggioso in lotta contro la forza che voleva indurlo a rinunciare a se stesso. A distanza di anni sentiremo ancora il gelo che ha accompagnato la notizia della sua morte. Uno dei suoi racconti recenti si conclude con la perentorietà di questa mezza frase: Non una parola di più.
Ma c’è sempre una parola di più. C’è sempre un lettore di più a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci. Giovinezza e perdita. Questa è la voce di David, americana.
(Don DeLillo nella prefazione di David Foster Wallace, Questa è l’acqua, Torino, Einaudi, 2009)

Ad alcuni viene più naturale scrivere che parlare. David non era uno di questi, o almeno non totalmente. Dal libro di Lipsky e dalla interviste che si possono leggere, ascoltare e guardare del nostro David, ne esce fuori l’immagine di un gran chiacchierone, in grado di tentare di spiegare ogni cosa. Scrivere vuol dire eliminare le imperfezioni, le ripetizioni, le frasi lasciate a metà e riprese cambiando e invertendo soggetti, verbi e complementi oggetto. È un’arte e DFW era un campione. Il suo enorme lascito letterario e saggistico è una consolazione a metà: ha sicuramente fatto più del 90-95% degli scrittori e pensatori della sua generazione, ma la sua morte ci ha privati di tutto ciò che non solo ci avrebbe potuto dire, ma anche di tutto quello che, pur conoscendo, non ci ha detto. Ecco che un testo, straordinario nella sua immediatezza e importanza, come quello di Lipsky ci consola e ci rattrista allo stesso tempo, ci mostra un lato di Dave che mai avremmo scoperto se non fosse stato mai registrato, trascritto, pubblicato e infine tradotto (un plauso all’eccellente lavoro fatto dalla nostra, italiana, minimum fax, casa editrice indipendente di cui non si parla mai abbastanza), ma si finisce col divenire ingordi e col volerne di più, sapendo di non poterne avere.

Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta è un libro fenomenale e unico perché in esso non è contenuta nessuna masturbazione filosofica e linguistica, ma solo chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. È un manuale senza regole per avvicinarsi allo scrittore. Ed è bellissimo farsi un viaggio nella mente di Wallace, come lui dice a Lipsky quando quest’ultimo gli porge in dono il suo romanzo autobiografico.

Quello che non doveva essere un libro, ma una semplice intervista, finisce col diventare un testo chiave per capire qualcosa di più di uno dei più incensati e amati scrittori americani degli ultimi decenni. E viene da domandarsi, mentre si accarezza la liscia copertina, che tragedia sarebbe stata se Lipsky si fosse liberato di quelle audiocassette dopo aver scritto l’articolo per Rolling Stone (per altro, mai pubblicato), se esse si fossero perse e se ora non ci rimasse nulla di quello che invece abbiamo.

Tanto il libro quanto il film sono un perfetto esempio del mestiere di scrivere, sulla necessità di aggrapparsi ad una storia (reale, in questo caso) e del soffrire nel lasciarla andare via. È chiaro ed evidente quanto Lipsky ci tenga a quei giorni che sta trascorrendo con David Foster Wallace e di come ogni istante, ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo siano per lui fondamentali e vitali. Quando il registratore non è acceso, prende appunti. Nulla deve andare perduto. Nulla è andato perduto.

(…) Quando avevo ventidue o ventitré anni, in pratica pensavo che ogni frase che mi usciva dalla penna fosse meravigliosa. E non sopportavo l’idea che non lo fosse. Perché a quel punti ti disintegri: cioè, o sei un fenomeno o fai schifo. Mentre adesso si tratta solo… sì, lo so che quello che sto per dire suonerà melenso e buonista, ma… adesso mi piace proprio il fatto di lavorare sulla pagina, in sé. Cioè, è proprio… mi fa sentire bene. Perché vedi, noi vogliamo continuare a fare questo lavoro qui per altri quarant’anni, no? E allora devo trovare un modo di godermelo senza farmene divorare, in modo da potermi rimettere ogni volta a scrivere altro. Perché avere trentaquattro anni e starmene seduto da solo in una stanza con un pezzo di carta davanti, questa per me è la vita reale. Tutto questo (indica il tavolo, il registratore, me) è carino, ma non è reale. Mi spiego?.
(David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Roma, Edizioni minimum fax, 2011, p. 87)

IO NON BEVO – DIPENDENZE, NON-COSTANZA, FORZA DI VOLONTÀ, AUTO-REGOLAZIONE

Stupisce, si ammira, conturba, l’atteggiamento del nostro David quando l’altro David (Lipsky, l’intervistatore di Rolling Stone) lo sprona a tirar fuori da dentro di sé quei morbosi aspetti dell’animo umano che tanto hanno presa sui lettori (alcol, droghe, sesso selvaggio e qualsiasi altro genere di comportamento eccessivo) e che confermano il mito dello “scrittore maledetto”. DFW non ha dipendenze di questo genere. In passato, sì, ha consumato ogni genere di sostanza, si è drogato, ha fumato, ha sniffato, ha bevuto dalla mattina alla sera, ha scopato tipe sconosciute in motel super-economici (consiglia a Lipsky di non andare a dormire in uno di quei posti, “fidati di me”, gli dice). Oppure, per contro, il giorno dopo ad essersi sballato per bene, poteva uscire di casa e correre per chilometri e chilometri solo per cercare di trovare soluzioni alternative al malessere che provava e che avrebbe provato, a fasi e intensità alterne, fino a quel fatidico giorno del 2008 in cui decise che era giunto il momento di togliersi la vita.

“Non sono mai stato un eroinomane. Se dovessi strutturare il tuo articolo facendomi passare per tale, sarebbe inaccurato”. Bere non è stato altro per lui che una forma di anestesia dall’assordante caos dell’esistenza, dal costante rumore bianco delilliano in perenne agguato, perennemente affamato come una bestia feroce. La paura della morte. Confusione. Sballottamento. Un continuo sali-scendi tra diversi stati e strati mentali, livello dopo livello. Nessuna gioia nel bere. Nessuna gratificazione in quell’atto. Soltanto la perdita di qualsiasi buona ragione per continuare a vivere.

Dave, a detta sua, non riusciva ad essere costante neanche quando si drogava o ubriacava. La non-costanza, ben diversa dall’incostanza, era una parte di sé con la quale dovette convivere fino alla fine.

Tuttavia, un’unica, seppur variegata, forma di dipendenza può essere considerata parte integrante della sua esistenza: l’intrattenimento. “La mia dipendenza principale è stata per tutta la vita la televisione”. Dave Wallace avrebbe potuto, letteralmente, nutrirsi della televisione. Con una serie di tubi, a mo’ di flebo, collegati allo schermo, e un sistema di scarico dei propri rifiuti direttamente attaccato al fondo della sua poltrona, il nostro David avrebbe potuto passare tutta la sua vita a guardare ogni genere di programma televisivo, di pubblicità per il fitness, di vecchie soap opera, di film intramontabili, di documentari a basso budget, di interviste pre-registrate. Il tutto, ingurgitando tonnellate di junk-food del peggior tipo. Ma il nostro David è un ragazzo intelligente e non si è lasciato sconfiggere tanto dalla forza attrattiva della tv quanto dalle deboli tentazioni insite nell’animo umano e ha rinunciato ad avere un apparecchio televisivo in casa perché certo che, se anche non l’avesse guardato tutto il giorno, l’oggetto-calamita sarebbe stato acceso tutto il giorno, come una personale versione di un caminetto con il fuoco che scoppietta e scalda e vicino al quale ci si siede a contemplarlo. E il cibo spazzatura? Quello è rimasto. Va bene la forza di volontà, ma non si può rinunciare a tutto. C’è qualcosa di profondamente americano, e nella sua scrittura è un faro sempre acceso l’interrogarsi su cosa renda gli americani quello che sono, nel mangiare da schifo, rendendosene conto, ma continuando a farlo, come alla fine del film quando i due David vanno a fare colazione da McDonald’s, ma il nostro David toglie i cetrioli perché no, quelli non vanno bene (l’abbiamo fatto tutti, almeno una volta nella vita, quando ancora andavamo al Mc, di togliere quei minuscoli dischi volanti alieni, verdi e viscidi come un mutante di X-Files).

Eppure, in tutto questa meravigliosa vita americana, il vuoto si fa vivo, imperturbabile. Una grande cultura, un’oscena buona educazione, non bastano a non sentirsi vuoti. Un flagello su quella gioventù americana, una condanna generazionale. La condizione di David è quella di migliaia, milioni di persone:

Mi piacerebbe essere il tipo di persona che può godersi le cose mentre avvengono, invece di doverci ripensare a posteriori e godermele solo mentalmente.
(David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Roma, Edizioni minimum fax, 2011, p. 209)

Apatico scollegamento dalla realtà. Non parla anche di questo il suo romanzo più celebre, Infinite Jest?

GIRARE UN FILM NELLA PROPRIA TESTA – MASTURBAZIONE, SCHERMI, INTERNET, FUTURO

Il nostro David non ha una relazione seria da chissà quanto tempo perché non se l’è più sentita e al pensiero d’iniziarne una gli viene solo in mente, per correlazione, che ha perso la mano, non ne sarebbe più in grado. DFW vive da solo, coi suoi due cani (Drone e Jeeves). Vive di stesso e scrive, ma non come Philip Roth, il quale ammette di voler badare solo e unicamente a se stesso. Dave Wallace ha raggiunto una forma di equilibrio nel disequilibrio totale della sua testa, tra pianeti che costantemente si allineano e disallineano e nuove galassie mentali che si formano e si sommano su quelle già esistenti. Ma ogni tanto non gli spiacerebbe scopare. È una cosa che gli manca.

La masturbazione? Una maniera simpatica per spendere cinque minuti, mandare via lo stress, ma se il rapporto con la mano diventa il più importante e pregiudica quello con altre persone, allora c’è qualcosa di assolutamente sbagliato in tutto ciò. L’atto, di per sé, ci può stare, ma senza esagerazione.

Nel mondo futuro dipinto da Wallace c’è però la sempre più ingombrante e inquietante ombra della solitudine, vissuta in maniera isolata dagli esseri umani, seppur connessi ad altri. La grandezza di un pensatore è sempre quella di avere una tale conoscenza di passato e presente dall’immaginare il futuro che sarà. E azzeccarci. La masturbazione, spinta nel suo livello-oltre, altro non è che una persona che da sola si gira un film nella sua testa, proiettando dentro di sé una realtà illusoria in grado di soddisfare per qualche momento le proprie pulsioni sessuali. Appagamento virtuale nella sua accezione più vera.

DFW non si spinge a immaginare il futuro dell’industria del porno, ma possiamo fare un salto nel 1998, quando il nostro David si trovò, in veste di giornalista (l’articolo che ne uscirà fuori sarà Il figlio grosso e rosso), a dover fare un reportage sugli AVN Awards, l’equivalente degli Oscar dell’industria del porno:

Grandissima parte dell’odierna industria del porno sembra una goffa parodia di Hollywood e dell’intera nazione. Le attrici di punta sono caricature fumettistiche del sex-appeal. I seni protesici e i sederi tirati su e (non è uno scherzo) gli zigomi artificiali non sono solo altro che l’accentuazione di una mentalità che dà luogo a un enorme giro d’affari di liposuzioni e collagene. La sessualità ginecologicamente esplicita di Jenna, Jasmin e altre sembra più che altro una caricatura da rivista «Mad» della sessualità «covata» di Sharon Stone e Madonna e di tante altre icone della cultura mainstream. Per non parlare del fatto che l’industria del porno prende molte delle deformazioni psicologiche per cui Hollywood è famosa – la vanità, la volgarità, il puro mercantilismo – e non solo le rende esplicite e grottesche, ma sembra poi crogiolarsi in tale grottesco.
(David Foster Wallace, Considera l’aragosta, Milano, Einaudi, 2006, p. 31-32)

L’industria del porno non è poi cosi diversa da quella del cinema. Non solo c’è una reciproca influenza tra le due, ma ciò che propongono è sostanzialmente la stessa cosa: intrattenimento, una maniera simpatica per spendere qualche minuto, qualche ora. Il problema, di cui lo stesso DFW ammette di esserne colpito, è la videoverdose, il passare gran parte della propria vita di fronte ad uno schermo.

Sul discorso di fruizione di un “prodotto visivo”, come ad esempio le attuali serie tv, tali e tante da impedire a chiunque di starci dietro per ritmi e quantità (dramma umano di molti di noi), DFW immagina e profetizza il futuro hobbesiano di Internet, alla stregua dell’InterLace, analogo sistema di trasmissione di dati presente nel suo Infinite Jest:

(…) E la cosa fondamentale, per chi fa film o confeziona qualunque tipo di prodotto, sarà arrivare sulla rete InterLace. L’InterLace sarà un enorme regolatore del traffico. Sarà come un’unica infernale casa editrice. Decideranno loro cosa ti arriva e cosa no.
Perché quest’idea che internet diventerà straordinariamente democratico… be’, chiunque abbia passato un po’ di tempo in rete capisce subito che non sarà così, perché è qualcosa che ti sopraffà completamente. Ci sono quattromila miliardi di informazioni che ti vengono incontro, il novantanove per cento delle quali sono solo cacate, ed è troppo faticoso scremarle per decidere. Perciò mi sembra evidente che molto presto si aprirà una bella nicchia economica per i regolatori del traffico. Mi spiego? Chiamali come ti pare, pozzi, nodi o quello che sia. Che selezionino non soltanto in base al tema, ma alla qualità. A quel punto la faccenda diventa davvero interessante. E noi pagheremo perché quelle cose ci siano. Perché altrimenti passeremo il novantacinque per centro a farci largo fra la merda creata da qualche buffone nella sua stanzetta del seminterrato… un perfetto dilettante, come dicevi tu l’altra sera. Te lo dico, non c’è momento più interessante dei prossimi vent’anni [cioè, il 2016, NdR] per essere vivi sul pianeta Terra. Sarà… avremo modo di guardare tutta la storia umana ripetersi da capo in maniera velocissima.
(…) Perché nello stato di natura la gente arriva a implorare l’avvento di un leader che abbia potere di vita e di morte sulle persone? Abbiamo l’assoluta necessità di delegare il nostro potere. Con internet succederà esattamente la stessa cosa. A meno che non ci siano barriere, siti e regolatori del traffico che dicono: “Benissimo, vuoi trovare della fiction di qualità dignitosa in rete? Te la scegliamo noi”. Perché altrimenti ti ci vorranno quattro giorni per trovare qualcosa di decente, con tutta la merda da cui saremo invasi, dico bene?
Li imploreremo in ginocchio. Pagheremo, letteralmente, per averli. Ma a quel punto, è evidente che tutti i bei sogni di democrazia telematica andranno a farsi benedire.
(David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Roma, Edizioni minimum fax, 2011, p. 156-158)

A qualcuno si è accesa improvvisamente una lampadina con su scritto “Netflix”?
Qui occorre fare un’altra lunga e doverosa citazione del nostro David nel 1996:

(…) Una persona di oggi passa molto più tempo di fronte a un monitor. In stanze illuminate dai neon, nei cubicoli degli uffici, a un capo o all’altro di un trasferimento di dati. E cosa significa essere umani, e vivi, ed esercitare la propria umanità in questo genere di scambio? Rispetto a cinquant’anni fa, quando il grosso dell’esperienza di una persona era, che ne so, avere una casa, un giardino, e farsi quindici chilometri in macchina ogni giorno per andare a lavorare in fabbrica. E vivere e morire nella stessa città in cui si nasceva, e sapere com’erano fatte le altre città solo dalle fotografie e da un cinegiornale di tanto in tanto. Insomma, ci sono un’infinità di cose che mi sembrano diverse, e la velocità a cui cambiano è proprio [diversa] … Il trucco… il trucco che dovrà fare la letteratura, per come la vedo io, sarà cercare di creare una ricchezza di dettagli e un linguaggio in grado di mostrare… sarà cercare di creare una mimesi efficace quanto basta per mostrare che in realtà non è cambiato nulla. Che ciò che è sempre stato importante è ancora importante. E il nostro compito è capire come fare questa cosa in un mondo in cui la consistenza sensoriale è completamente diversa.
(David Lipsky, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, Roma, Edizioni minimum fax, 2011, p. 409)

Tempi che cambiano velocemente e che della velocità fanno la loro caratteristica principale. Al di là dell’aspetto “profetico” rintracciabile nelle parole del nostro David che altro non è che quella “visione d’insieme” di cui parla il protagonista di Basta che funzioni (Woody Allen, 2009), viene da porsi una domanda: quello di cui parla DFW è sbagliato o è la semplice evoluzione degli esseri umani? Risposta: chissenefrega. Troppo tardi, siamo già lì, in piena transizione da un’epoca all’altra. Per ora ce la stiamo cavando abbastanza decorosamente, direi che per ora va bene così. Non una parola di più.

NON SO SE “FAN” SIA ESATTAMENTE LA PAROLA GIUSTA – ARGUZIA INFINITA

Se c’è un aspetto meraviglioso nella scrittura di David Foster Wallace è la sua arguzia. Egli gioca con le parole, scherza con la lingua, mischia insieme slang e linguaggio dotto. C’è un momento bellissimo in The End of the Tour, uno dei tanti, ma questo è particolarmente emblematico dello scrittore. Lipsky chiede a Wallace se abbia fatto togliere il suo numero dalla guida telefonica per via dei fan e delle loro chiamate moleste. La risposta del nostro David è disarmante “Non so se fan sia esattamente la parola giusta”. Giusto. Perché dovrebbe esserlo? DFW vuole essere famoso, l’ha voluto fortemente voluto, ci si è impegnato e gli è andata bene (ma guai a dirgli che sta facendo un sacco di soldi perché non è vero). C’è un naturale compiacimento nell’essere letto da migliaia di persone, che il proprio lavoro venga apprezzato, ma nulla di più. Certo, se diventare famosi significasse andare a cena fuori con Alanis Morrisette, o anche solo prendere un tè insieme a lei … wow, assolutamente. Subito. La celebrità è più consona al suo amico Jonathan Franzen, che però nel 1996 non l’ha ancora raggiunta. La celebrità è qualcosa che distrae. La celebrità priva lo scrittore della giusta concentrazione. La celebrità non rende liberi. La celebrità impone cene di gruppo e serate celebrative (“meglio essere morti”). Per Dave, “fan” è solo una parola come le altre, è un po’ come quella ventola (fan, in inglese) sul soffitto mentre scaccia via lo stress ballando. Una maniera simpatica per spendere qualche minuto. Una parentesi nella propria vita, anzi, più una nota sul fondo della pagina.

Le note a piè di pagina sono una delle cifre stilistiche di David Foster Wallace. Protuberanze narrative che si elevano e distaccano dal testo principale per dirci qualcosa di più su di esso. In una di queste, contenuta nel saggio che dà il titolo alla raccolta Considera l’aragosta, lo scrittore prende l’equazione “siamo quello che mangiamo” e ci pone una domanda interrogandoci su ciò che ci rende umani, cioè l’uso della parola:

Ha qualche significato il fatto che lobster, fish e chicken siano le parole usate nella cultura inglese per indicare sia l’animale che la sua carne, mentre per la maggior parte dei mammiferi sembra esserci bisogno di eufemismi come beef e pork invece che cow e pig che ci aiutino a separare la carne che mangiamo dalla creatura vivente che un tempo quella carne era? È questa la prova che esiste una sorta di profondo disagio riguardante al fatto di mangiare animali superiori, un disagio endemico al punto da emergere nell’uso della lingua, ma che diminuisce via via che ci allontaniamo dall’ordine dei mammiferi? (E, allora, lamb|lamb è il controesempio che fa affondare l’intera teoria, oppure ci sono ragioni biblico-storiche per l’equivalenza?)
(David Foster Wallace, Considera l’aragosta, Milano, Einaudi, 2006, p. 276)

A scanso di equivoci, il nostro David era un consumatore di carne, non un vegetariano, non un vegano. Ma non ci stupirebbe se nella sua vita, dopo un weekend a base di barbecue cancerogeni e partite di football americano, avesse passato una settimana a mangiare insalate scondite e leggere epigrammi greci. In fondo, il nostro David non era nient’altro che una persona confusa. Esattamente come noi. Lui però era un genio, ma questa è tutta un’altra storia.

Simone Tarditi