
Bug, cercasi paranoia per la fine del mondo
February 17, 2016Il cinema di William Friedkin ha sempre trovato un modo per disturbare la tranquillità dello spettatore, per metterlo non a suo agio. Bug, tratto dall’omonima pièce teatrale di Tracy Letts, autore anche della sceneggiatura del film, è uno dei film più sconvolgenti del regista perché, tra tutti quelli che ha diretto, è quello che indaga nella maniera più spaventosa la psiche dell’essere umano e ciò che la mente può partorire e di cui può nutrirsi.
Nell’Oklahoma più povera e degradata, Agnes e Peter (Ashley Judd e Michael Shannon, qui strepitosi) s’incontrano per via di una conoscenza in comune e iniziano una pericolosa relazione che devasterà le reciproche esistenze, senza mai muoversi da quella stanza del motel nel quale è ambientato quasi tutto il film.
Lei è una madre che ha perso un figlio e non sa che fine abbia fatto, vive sola (il marito è un ex carcerato che entra ed esce di scena per tutto il film), si droga, beve, fa la cameriera in un bar per lesbiche (una versione allegra e per nulla inquietante dei locali mostrati in Cruising), non sa più che fare della sua vita ed è debole, si affida al caso e si fa trascinare dagli eventi della vita, qualsiasi essi siano.
Lui è un reduce dimenticato dal suo paese, la cui storia assume contorni talmente confusi da impedire di decifrare il personaggio: è stato usato realmente usato come cavia? È un disertore? È stato vittima degli abusi di suo padre, un uomo in preda alla follia della fede religiosa? Oppure non è nulla di tutto questo ed è solo un sociopatico? Bug non fornisce nessuna risposta ed è quello che dovrebbe fare ogni film del genere: interrogare lo spettatore, dopo averli sconquassato il cervello per bene. Ed è quello che da sempre il cinema di William Friedkin ha fatto, rinunciando a dare spiegazioni troppo facili.
Sulla clamorosa prova dei due attori protagonisti, nella sua autobiografia è lo stesso regista a dare la propria opinione:
Non c’è gioia più grande per un filmmaker, che osservare un cast che interpreta un testo così arduo a un livello così alto. A volte Ashley e Michael ci mettevano così tanta energia, da temere che potessero farsi male a vicenda. (…) Anche se il contenuto dell’opera di Letts era disturbante, sul set tutti erano concentrati e al tempo stesso rilassati.
(William Friedkin, Il buio e la luce. La mia vita e i miei film, Milano, Bompiani, 2013, p. 531)
La ripresa aerea che dà inizio alla storia mostra una realtà fatta di degrado, un minuscolo motel immerso nel nulla (il film è ambientato in Oklahoma, ma le riprese son state effettuate in Louisiana per motivi di natura economica), un luogo dove possono incontrarsi gli spacciatori o ci si possono portare le prostitute o un’amante con poche esigenze e con poca classe. Al confronto, il motel di Psycho (A. Hitchcock, 1960) è Disneyland.
Quel microcosmo inquadrato dall’altro è poco più di un piccolo nido di vespe, le cui celle sono sistemate l’una di fianco all’altra, incollate insieme.
Agnes è fuori che fuma, appoggiata ad una trave, come una vespa regina, in attesa. L’arrivo di Peter significherà per lei trovare una persona con cui distruggere la propria esistenza. Insieme, i due protagonisti, coveranno le uova della paranoia, entreranno in uno stato di parassitosi allucinatoria, convincendosi sulla teoria di teorie complottiste che essi stessi evolvono da quelle già esistente o creano di sana pianta. Inizialmente a lei non piace pensare a tutto ciò, ma lui la fa sprofondare nella più contagiosa e terrificante paranoia dalla quale non c’è via d’uscita o modo di tornare indietro, fino all’annichilazione finale.
Riguardo alla conclusione del film, Friedkin racconta sempre nella propria autobiografia un aneddoto:
(…) Quando Agnes e Peter decidono di isolare l’appartamento per impedire alle “cimici” di “trasmettere segnali al mondo esterno”, avvolgemmo tutto il set con la carta stagnola, illuminandolo solo con lampade da giardino che sfrigolano come insetti. E i colori caldi dell’inizio cedono a un blu gelido.
(…) L’ultima settimana di riprese, a mezzogiorno faceva già buio. Per fortuna avevamo finito gli esterni, e giravamo sempre al chiuso. Pioggia e tuoni andarono avanti per giorni. In quello che doveva essere il ventunesimo e ultimo giorno di riprese, dovevamo filmare la scena in cui Agnes e Peter si preparano a morire insieme, terrorizzati da ogni contatto col mondo esterno. Si versano addosso una tanica di kerosene, accendono un fiammifero e incendiano l’appartamento. Gli addetti agli effetti speciali versarono liquido infiammabile sulla carta stagnola, e piazzai tre macchine da presa, ciascuna con un obiettivo diverso, sulla parete più lontana da quella che doveva essere incendiata.
Quando avvenne appiccato il fuoco, le fiamme invasero subito la stanza, bruciacchiando le facce degli operatori, che abbandonarono le macchine da presa e corsero via, evitando danni più gravi. Era stato usato troppo liquido infiammabile. Tutti si presero una gran paura, ma per fortuna nessuno si fece male seriamente. Franco [scenografo del film, NdR] allestì nottetempo una nuova parete, e il giorno dopo rimettemmo le macchina da presa nella stessa posizione, azionandole però con un telecomando. Questa volta i tecnici non sbagliarono, e finimmo le riprese a New Orleans.
Presi l’aereo per Los Angeles e due settimane dopo, il 19 agosto, l’uragano Katrina devastò New Orleans. Gli argini cedettero e l’ottanta per centro della città venne inondata, compresa la scuola in cui avevamo girato”.
(William Friedkin, Il buio e la luce. La mia vita e i miei film, Milano, Bompiani, 2013, p. 531-532)
C’è una dicotomia fortissima tra la prima (e più lunga) parte e la seconda. Dai toni caldi, roventi e bollenti di quando la coppia inizia a conoscersi si scivola quasi di colpo a colori gelidi e algidi, emblema del nuovo e degradato stato mentale che raggiungono quando si lasciano divorare dalla paranoia, che esplode dopo il loro primo e unico atto sessuale.
Bug è la summa poetica di William Friedkin, in esso ci sono alcuni degli scomodi temi che nell’arco della sua carriera ha trattato: la follia (Rampage), la possessione (The Exorcist), il dramma della guerra (Rules of Engagement) e i suoi traumi sui reduci (The Hunted), il degrado della periferia americana (Killer Joe, scritto anch’esso da Tracy Letts), l’isolamento (12 Angry Men).
Non c’è natura più spaventosa di quella umana e Friedkin è rimasto uno degli ultimi alfieri a ricordarcelo, con tutta la sofferenza, la nausea, il malessere e il disagio che ne derivano.
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