Inside Llewyn Davis, questa vita è come un folk

Inside Llewyn Davis, questa vita è come un folk

April 4, 2016 0 By Mariangela Martelli

Siamo nella NY del Greenwich Village, 1961. La sera è scesa da un pezzo ed entri al Gaslit Club per chiudere con ciò che ne è stato della giornata: sei solo, ti siedi (magari di lato in fondo) e mentre aspetti che il cantautore di turno inizi il repertorio, ti fai un drink. Il tuo sguardo è nell’insieme, non si ferma nel dettaglio: non stai cercando qualcuno, osservi l’aria decadente, sciatta, disordinata che si respira. Nient’altro. Ssshh: adesso inizia. Smettila con i pensieri: chiudi gli occhi e perditi nelle melodie. Adesso sai che non esiste nessun altro luogo in tutta NY che ti faccia sentire veramente a casa (anche se magari sei “A hundred miles away from the home”).

E ti senti come svuotato, in pace con tuttoquando Llewyn Davis (Oscar Isaac) conclude l’ultimo pezzo con un:

Forse l’avrete già sentita:

se non è nuova e non invecchia mai,

allora è una canzone folk

coengif

Questa è la sensazione che rimane allo spettatore dopo essersi vissuto l’intero film: il ritrovarsi in una canzone folk, senza saperlo. Inizio e fine si abbracciano in un cerchio: sono la prima e l’ultima strofa che continuano senza chiudersi. In mezzo ci sta tutto il resto. Se con il “back to the roots” finale ti sembra di non essere andato da nessuna parte, che le cose siamo rimaste immutate senza evolversi, allora ti sbagli. Inside Llewyn Davis è il momento nella vita del giovane cantautore folk Llewyn: una parentesi che gli piomba letteralmente addosso, lo travolge e sconvoge. Il senso di essersi perso è ovunque: per le vie nebbiose che percorre, il mal di schiena la mattina al risveglio tra lenzuola sgualcite o divani semi distrutti, il non ricordarsi di averle prese la sera prima fuori dal locale, il non trovare un contratto musicale duraturo.

Rimasto solo senza la sua metà affine nell’arte (come possiamo intuire fin da subito) continueremo a seguirlo in ogni fotogramma, nelle disavventure che si susseguiranno una dietro l’altra: tra gatti (di amici) che si danno alla fuga, relazioni sentimentali passate e presenti difficili da gestire, soldi che non ci sono e cappotti che mancano nel freddo inverno newyorkese. Llewyn è costantemente coinvolto in situazioni che non sente proprie, dalle quali vorrebbe riuscire a liberarsene una volta per tutte. Ma non è così semplice.

Ci prova, uscendo dai formalismi anni ’50 di una società che vuole apparire nei cappelli di feltro, trench, guanti e borsette che indossa. Quando però, il rifugio nel Greenwich non gli basta più, realizza il pensiero del suo alter ego – reale – Dave Van Ronk (che leggiamo nel memoir: “The mayor of Mac Dougal Street”): “Se avessi potuto fuggire lo avrei fatto”.

Essenziale la scena in cui lui e Jean (una Carey Mulligan “rissosa” e fidanzata con il migliore amico di lui) sono seduti al tavolino del cafè. Alla domanda di lei: “Pensi mai al futuro?” lui gli risponde: “Il futuro? Intendi le macchine volanti?”. Jean è arrabbiata, è un’ idealista convinta che lui possa arrivare a realizzare il suo sogno folk. É doppiamente irritata perché Llewyn non riesce ad esprimersi e preferisce rimanere a oziare sul divano, rigirandosi dall’altro lato, in uno stato di torpore perenne. E perché “si dovrà disfare di ciò che potenzialmente bello ha sempre desiderato”, consapevole che nella realtà si è ritrovata a vivere qualcosa di diverso. Prova a dimenticarsene sul palco, cantando con tutta la sua disarmante dolcezza.

Adesso basta: Llewyn scappa dalla quotidianeità che lo attanaglia, dal presente che lo opprime e non gli consente di vedere il futuro. La seconda parte del film si trasforma in un omaggio al genere “road movie”. Saliamo in macchina con Llewyn: direzione Chicago per tentare un’audizione con Bud Grossman (personaggio che incarna il periodo di transizione verso il business folk nell’industria miliardaria). Si alternano scene interne a bordo dell’auto e “all’aperto” tra un rifornimento di benzina e cibo. Llewyn condivide il tutto con i suoi compagni di viaggio: un biondo giovane poeta pseudo beatnik (Garrett John Hedlung: ricordate il film On the Road?) e il jazzista Roland Turner (John Goodman) con problemi deambulatori (e non solo) capace di vomitare tutto il proprio marciume sul prossimo.

Il nostro protagonista nonostante gli “imprevisti dell’ultimo minuto” riscirà a esibirsi davanti a Grossman che gli chiederà un pezzo tratto dal suo album solita: “Inside Llewyn”. Canterà se stesso nella ballata antica The death of Queen Jane: un archetipo rivisitato nel corso della storia musicale anche da Lou Reed e Bob Dylan. I fratelli Coen hanno deciso di inserirla su consiglio del produttore musicale T-Bone ( con cui avevano già collaborato in precedenza in Fratello, dove sei?) perché volevano una versione pura, incontaminata, primordiale, intatta nella melodia come nell’essenza. Il risultato è struggente, vero, indelebile.

Llewyn è in piena crisi esistenziale e nonostante le battute provocatorie che lancia alle persone false intorno a lui (come per smascherarne brutalmente la loro facciata ipocrita) percepiamo che di base è una persona brillante, estroversa, colta, sensibile… Ma non quel mese. Lo spettatore non può non fare il tifo per lui, spronarlo a risollevarsi e durante le disavventure tragicomiche una risata di identificazione gli scappa per forza. Sì perché noi ci riconosciamo in lui: ci siamo passati e sappiamo che la vita non è mai come vorremmo.

Ma Inside Llewyn Davis non vuole essere una visione cinica del tutto perché dalla consapevolezza del dolore possiamo far nascere la gioia di vedere, sapere, sentire, del viversi le cose per ciò che sono. Il film non è pieno di momenti bui per Llewyn perché quando meno se lo aspetta riesce a percepire una speranza, a sfiorare il vero significato di tutto questo “brutto scherzo” che gli sta accadendo. Lui non se ne accorge ma è così: un Satori continuo.

Un’intuizione che senza alcuna riflessione riconosce che lo zero è infinito e l’infinito zero… In termini psicologici è un ‘oltre’ i confini dell’io…Lo zen non esce mai dalla nostra vita quotidiana e ha in sé qualcosa che lo pone al di fuori della contaminazione e del tumulto del teatro del mondo. (…) Zen è la coscienza quotidiana che non è altro che dormire quando si è stanchi, mangiare quando si ha fame. Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiano concetti, l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero”.

(Dausetz T.Suzuki nell’introduzione a Lo zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel, Milano, Adelphi, 1975)

ild catSe una mano (o meglio una zampa) a Llewyn gliela desse il famoso gatto rosso che durante tutta la pellicola compare/scappa/scompare/ritorna e che viene scambiato per lui in una telefonata? Il gatto, allora, diventa un Simbolo (secondo lo Zen in grado di mostrare la Via) che lo sprona più e più volte ancora: quando scappa di casa è per far uscire Llewyn dalla sua situazione e lasciare che rincorra qualcosa che ha dimenticato; quando fugge dalla casa di Jean è un pretesto affinché i due possano parlarsi, infine il ritorno a casa del “vero Ulisse” coincide con la fine e il nuovo inizio di Llewyn.

I Coen avevano le idee chiare: volevano un attore e musicista competente e convincete che hanno trovato in Oscar Isaac (suona la chitarra da quando aveva dodici anni). Canzoni tutte suonate dal vero, incise la prima volta la settimana prima dell’inizio delle riprese (che per i pochi soldi a disposizione sono durate solamente quarantadue giorni). Ricreano le atmosfere crepuscolari ed evanescenti dell’epoca buia del folk pre-Bob Dylan: abbassando il soffitto del club Gaslit per renderlo “più underground”, scegliendo le canzoni dal repertorio di Dave Van Ronk e omaggiando anche la copertina di The Freewhellin’ di un Bob Dylan che ancora non c’è, ma che percepiamo nell’aria.

freewhelin

Un’altra serata è finita. Nello stesso modo della prima. Adesso però, Llewyn sa.

Mariangela Martelli