Il cattivo tenente, irreversibilità del peccato

Il cattivo tenente, irreversibilità del peccato

April 8, 2016 0 By Angelo Armandi

Il Cattivo Tenente - Bad LieutenantIl cattivo tenente, opera maledetta di Abel Ferrara, l’incarnazione stessa della dannazione, unico regista in grado di somatizzare in cellulosa i meccanismi della malattia sociale. Presentato al Festival di Cannes nel 1992, sezione Un certain regard. Sceneggiato dallo stesso Ferrara assieme all’attrice Zoe Lund, dopo il rifiuto dello storico collaboratore Nicholas St. John, che bollò i contenuti del soggetto come “rischiosi”. In Italia, l’ovvia reazione della censura, che tagliò diverse (fondamentali) sequenze per attribuire all’opera un ironico VM 14.

Il cattivo tenente è Harvey Keitel, ancora nell’interpretazione di un personaggio dalla coscienza avvolta di tenebra, dopo l’esordio internazionale con Mean Streets di Martin Scorsese. Il Keitel di Mean Streets, però, aveva potuto godere di una coscienza sempre in bilico tra il bene il male, ancora in possesso di una capacità di discriminazione tra la fascinazione per il peccato e il timore per la punizione divina, ancora in tempo per esercitare un libero arbitrio che possa spianare la strada per la redenzione. Il tenente brancola invece nella notte con un residuo di santità nello sguardo, appartenuto ad una vita passata, non più in grado di resistere alla rovinosa caduta nella perdizione.

La storia, sbrindellata quanto la mano di Ferrara che sorregge la macchina da presa, si muove seguendo le orme di un noir privato di ogni pulsione vitale, incastrato in atmosfere suburbane, quasi sempre calate nella notte impietosa (King of New York), talmente densa e allucinata da essere la ricostruzione dei pezzi sparsi di anima (Taxi Driver, a questo proposito, conferma il legame stilistico, oltre che poetico, tra Ferrara e Scorsese, in cui la New York di Travis Bickle è espressione delle sue ossessioni, un’immagine mentale/onirica di derivazione lynchiana).

La metropoli del tenente è appendice della sua psiche, distorta dai suoni in presa diretta del caos cittadino, raccontata in continui piani sequenza, con una camera a mano che traballa, disorienta e impone disagio. La mano di Ferrara è immobile davanti alla violenza, raccontata con implacabile, ossessivo realismo. Luci al neon e sirene, rigurgiti di alcol e setti nasali intrisi di cocaina. Poi una statua della Madonna gettata per terra, una vulva, un volto sofferente di suora, un calice infranto. Un crocifisso insanguinato. Urla distorte dalla musica.

Bad-Lieutenant1Il tenente indaga sulla violenza sessuale subita dalla suora, e intanto smarrisce lentamente pezzi di coscienza, fino alla negazione totale della volontà, all’annichilimento dell’anima. Vive in costante egoismo confusionale, non concede tregua in una metropoli indifferente, troppo concentrata nel disprezzo borghese per ogni forma di depravazione. Imprigionato nel caustico loop di droga, alcol, scopate e masturbazioni davanti a minorenni (la sequenza che creò disagio nel moralismo italiano), il tenente, nudo col proprio marciume, sperimenta il massimo dell’umiliazione in una delle sequenze cardinali dell’opera, in cui esegue una danza macabra e ubriaca, con una smorfia di sofferenza e braccia atteggiate nella posizione del crocifisso.

L’espressionismo della mente e il realismo della violenza si fondono in un cocktail che esplode in allucinazioni e immagini simboliche, tutte a sfondo cristologico. Ed ecco che Il cattivo tenente mostra la sua reale potenza: la rappresentazione di un degrado operato senza alcun timore, in cui il regista non si interroga sul perché, ma sul come. E’ la storia di una malvagità compiuta fino in fondo, in una forma più consapevole, contemporanea, che scardina ideologicamente la purezza di forma di certe anime cattoliche, che già Scorsese aveva contribuito ad etichettare nel loro bigottismo.

Il film si mostra al pubblico in forma viscerale, ed è come tale che va accolto. Le cause, le speculazioni, le filosofie non appartengono a Ferrara, il quale, consapevole del degrado morale, decide di tradurre la narrazione in immagini disturbanti. Alla suora stuprata viene effettuato un esame obiettivo del corpo per rilevare le lesioni da violenza sessuale. Con una naturalezza che sconcerta, l’immagine non ci concede alcun sollievo ed è aggravata dalla voce asettica del medico che descrive le lesioni (il che consente di collegare il distacco emotivo dell’immagine alla forzata negazione dell’empatia da parte dei medici nell’esercizio della professione). Il realismo della sequenza è talmente doloroso da risultare catartico.

bad l3Il dramma raccontato nel Tenente è, infatti, tutt’altro che ozioso, masochista o impudente. Si tratta dell’ossessione di Ferrara (in definitiva, uno Scorsese al cubo), sul discorso ontologico tra Bene e Male. Sono gli stessi fotogrammi a trasudare malvagità, così poco attraenti, così sporchi, imprecisi, distorti, ricolmi di miseria. Soffocano in un pessimismo che incentiva e aggrava le conseguenze del male. Esiste una redenzione? Scorsese la cerca, consapevole di quanto accattivante possa essere il peccato (Quei bravi ragazzi), e non abbandona la speranza, confidando in un Cristo che è così carnale da condividere le debolezze dell’uomo e abbracciare la miseria dell’anima (L’ultima tentazione di Cristo). Ferrara ritiene che sia necessario conoscere il male per poterlo espiare. Pochi interrogativi, solo la cruda realtà delle cose. Abbellire il male in varie forme (l’obiettivo della censura) distrae dallo scopo catartico della visione, che invece necessita dell’idea pura, di una esperienza sensoriale asfissiante e dell’oltraggio tradotto in disagio fisico (ad esempio, l’istinto ad interrompere la visione del film). Bisogna accompagnare il tenente nella sua parabola agli Inferi, partecipare alla sua volontà vacillante e alla facilità con cui ricade nel peccato, giungendo a livelli più profondi e più turpi, da cui è sempre meno possibile tornare indietro. Bisogna sperimentare l’idea dell’irreversibilità delle cose (un pessimismo molto marcato in Cormac McCarthy, ad esempio, che nella sua osservazione dell’America contemporanea scriverà nella sceneggiatura de Il Procuratore, opera meno viscerale ma non meno efficace del Tenente: “avvocato, lei è giunto al punto in cui deve capire che non si può più tornare indietro”). Bisogna comprendere come le azioni conducono a conseguenze inoppugnabili. E l’inquadratura finale del film, infatti, è l’unica immobile, lontana dal tenente, ad osservare gli eventi con una severità che suggerisce l’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità per le proprie azioni, nel bel mezzo del traffico cittadino, espressione massima dell’indifferenza e della casualità delle cose.

L’idea del Cristo, allegoria costante del film e incarnazione delle allucinazioni, può essere ritenuta blasfema soltanto in una dimensione moralista. Ferrara suggerisce invece l’unica via di redenzione possibile, l’aspirazione finale dell’anima, l’opposizione massima alla corruzione morale e materiale del tenente. Si tratta di un’opera definitiva, in cui un’indagine per stupro è il pretesto per raccogliere ogni forma di nefandezza, un’estetica tormentata del peccato che il grande schermo non aveva mai avuto il coraggio di accogliere (e forse non l’ha ancora: Ferrara è condannato ad una distribuzione misera, per ovvi motivi).

Nella sua grandissima umiltà e sapienza, Ferrara condanna il perbenismo della forma e le scritture patinate (Pasolini), lasciando che l’immagine destabilizzi le coscienze e consenta di sperimentare a priori le conseguenze del peccato, da cui nessun uomo è in grado di fuggire. Amen.

Angelo Armandi