
Deserto Rosso, Antonioni lavora per colori
May 9, 2016Pensieri che si confondono, nell’orizzonte del mare. Occhi che non riescono a fissarlo troppo a lungo perché i ricordi, all’improvviso, ti urlano che forse è meglio rimanere immobile nello stato di sempre. Un’Evelyn Joyciana. Aspetti il cambiamento che possa travolgerti e cullarti come un’onda capace di portarti via lontano, ma la tua volontà si lascia soffocare in un silenzio che rieccheggia assordante nelle tue profondità. L’illusione di rimanere ancorati alle abitudini: neanche te ne accorgi ma sei Immobilità, la Solitudine vuota sulla terraferma gelida. Non sai più cosa guardare. Potrebbe essere un non sapere come vivere. Forse sono la stessa cosa. Non ti basta mai, hai sempre bisogno degli altri. Niente è cambiato, ma adesso vuoi essere avvolta dal muro della comprensione. Cerchi un posto nel mondo dove stare meglio: Il tuo posto. Tremi di aridità ghiacciata: girare sempre (come il giroscopio di tuo figlio) forse ti riporterà solamente al punto di partenza. Sarebbe inutile, sarebbe troppo per te.
Nascondi te stessa, dietro verità inesistenti. Vuoi tutto, senza riuscire ad amare. Ti dicono che basterebbe una sola cosa a cui non ti aggrappi e lasci scivolare il corpo dentro al pavimento che non ti contiene. Sempre in apnea senza mai riuscire a risalire, svanire nell’Oblio dell’anima: la tua paura si fa immensa. Allora cerchi per forza di afferrare una fisicità eterea per accorgerti che sei Esistenza : “Mi sembra di avere gli occhi bagnati”; “Mi fanno male i capelli, la gola, gli occhi, la bocca”. Sopravvivi con il freddo dentro.
“Quando l’oggetto originario di un moto di desiderio è andato perduto in seguito a rimozione, spesso viene sostituito da una serie interminabile di oggetti sostitutivi, nessuno dei quali tuttavia soddisfa pienamente. Questo può spiegarci l’instabilità nella scelta oggettuale, la “fame di stimolo” che è propria, così spesso, della vita amorosa negli adulti”. (Sigmund Freud)
Lei è Giuliana (interpretata da una magistrale Monica Vitti, impossibile da catalogare) una donna alienata dal suo essere e sentire dissociato, portavoce della società borghese di primi anni ’60, che mostra già una certa scia decadente da post boom economico. Il suo è uno stato patologico, fragile ed essenziale. Una crisi vera e propria che diventa conseguenza inevitabile per la chiusura della tetralogia dell’incomunicabilità, così cara ad Antonioni e di cui abbiamo potuto conoscerne i toni crepuscolari nelle precedenti pellicole (L’avventura del ’60, La notte del ’61, L’eclisse del ’62).
Lavorare per colori
Antonioni, nel 1964, sceglie Deserto Rosso come suo primo film a colori. Ne scrive la storia con Tonino Guerra, prendendo l’idea da un racconto di quest’ultimo. Nonostante siano riprese le tematiche/manifesto del regista, con la sua nuova opera segna inevitabilmente una rottura con il passato e la nascita di un nuovo modo di vedere e fare cinema che incuriosisce e convince, sia in Italia che all’estero: infatti la sua opera verrà premiata con il Leone d’Oro al miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia nel ’64 e nel ’68 a Kansas City Films Critics Cirlce Awards come miglior film straniero.
Deserto rosso porta con/in sé i germi del contagio, della nebbia improvvisa che disorienta i personaggi e lo spettatore. Si percepisce in ogni fotogramma e inquadratura: le luci e le ombre del passato non si vedono più (anche se sappiamo che questi non-colori sono nei personaggi) in quanto sono state sostituite dal technicolor che esplode vivo ad alta voce. I colori dei vestiti, degli spazi e degli oggetti si abbinano perfettamente al momento avvertito della protagonista.
Amore per il dettaglio

Omaggio di Alessandro Baronciani a Monica Vitti tratto da “Le ragazze dello studio di Munari, Black Velvet Edizioni”
Antonioni non esiterà a far dipingere agli “addetti ai lavori” ogni tipo di oggetto presente in scena: Grigi sono gli oggetti sul carretto per strada, vicino a dove Giuliana si siede per posare i suoi pensieri color fumo; le pareti non finite del suo negozio sono delle bozze d’ Azzurro e Verde lasciate in sospeso e tracciano l’indecisione di Giuliana, il suo non voler creare “disturbo ai clienti”; Rossa è la seduzione morbosa della stanza in cui si ritrova con il marito, gli amici e colleghi di lui per un festino a base di vino e uova di quaglia, l’immagine di lei allo specchio è racchiusa dai muri di legno dipinto, protezione effimera in procinto di essere distrutta, scheggiata e usata per scaldarsi; Gialla è la bandiera della nave che non sventola, vessillo di contagio, di malattie sconosciute, di distanze che si accorciano quando non richieste, Giallo è anche il respiro della ciminiera, il timore del figlio che un uccellino possa entrare in questa nuvola di morte per poi precipitare. Colori dati a mano, di notte, con i pennelli. Superfici momentanee che sanno di artificiale e astratto, ma di una genialità artigianale. (Purtroppo la pittura bianca degli alberi si scioglierà al sole, vanificando fatica, spese e soprattutto l’idea del regista di mostrare al pubblico i catastrofali effetti dell’industria sulla natura)
Bianco è il non colore delle emozioni anestetizzate di Giuliana che rincorre per i corridoi vuoti e asettici a casa sua di notte, labirinti che per quanto possa fuggire la riportano sempre al punto di partenza: il suo viso di fronte a quello del marito Ugo (Carlo Chionetti) che non la vuol capire e continua a trattarla come una bambola di vetro. Bianca è l’attesa della partenza ma anche, fondamentale, il veliero nella favola che racconta al figlio: un bambino viziato dal non affetto dei genitori e che decide di non camminare più per rifiutare la madre.
Colori / Non Colori
Il rosso del deserto non esiste, nonostante sia presente nel titolo della pellicola. Illusione che Antonioni ci aveva già creato (e abituato) nel precedente film “l’Eclisse” (infatti, anche di questo titolo, non ne vedremo neanche l’ombra). Il Vero colore del film è il Rosa. Se spogliassimo Giuliana del corpo, è questo il colore che ne rimarrebbe: lei è il Rosa. La stessa sfumatura della sabbia della favola (si tratta della spiaggia di Budelli in Sardegna) della libertà nella natura, del silenzio interrotto dal canto delle rocce vive, come di carne. Rosa è il desiderio, la dolcezza del Sogno, della sessualità. Quando alzerà gli occhi in alto, al soffitto Bianco della stanza in cui si trova, riuscirà finalmente a vederlo trascolorare dell’essenza che porta in sé, come un qualcosa che sboccia dentro e fuori di lei. In una pura Realtà. Adesso i muri così a lungo cercati, sono un tutt’uno con lei, come ritrovati. Sembra quasi di vivere anche noi il suo momento, di essere lì, nella stessa scena, in un’empatia rosa che arriva allo spettatore capace di condividerne l’attimo. Questa è la Vera avanguardia cromatica della fotografia di Carlo di Palma, in continua evoluzione e premiata nel 1965 con il Nastro d’Argento.
Come Giuliana, anche Antonioni voleva l’Armonia dello spazio dentro e fuori dal proprio mondo:
“Ogni qualvolta entro in un ufficio, in un luogo pubblico o in una casa privata che mi sono estranei avverto l’urgenza di disporre in maniera diversa la scena. Esco per incontrare qualcuno e la conversazione mi mette a disagio. Perchè ho la sensazione che nessuno di noi occupi il posto che dovrebbe nella stanza. L’altra persona è sul divano, mentre dovrebbe trovarsi su una poltrona, qualcosa di meno libero, più raccolto. Io gli siedo accanto quanto in realtà dovrei essergli di fronte. E invece che dare le spalle al muro, ho idea che dovrebbe avere una finestra o una porta dietro di sé, così da mantenere una qualche possibilità di fuga. Si tratta di deformazione professionale o dell’urgenza istintiva di sentirmi in armonia fisica con ciò che mi circonda? Credo più nella seconda ipotesi. E infatti non riesco a girare una scena se prima non sono stato da solo nella stanza, o sul set, per capirla e percepire le possibili angolazioni di ripresa”
Antonioni sembra darci la possibilità di riuscire a districarci in questo groviglio di simboli e imput, plasmando un contrasto tra la bellezza estetica della fotografia a colori e la sofferenza isterica in bianco e nero della protagonista. Ma non solo. C’è tutta una corrispondenza sottile tra l’architettura dell’Anima lieve di Giuliana e quella di una Ravenna post-industriale, livida, asettica, distante. Antonioni dirà infatti che non ci sono sentimenti, perché ha voluto immortalare una realtà nevrotica, lontana dalla vita vera.
Esterno / Interno
“Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, attraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come un’entità separata, che pulsi in un al di là. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento, ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi. Le altezze e i ritmi dei suoni in continuo mutamento avvolgono gli uomini, salgono turbinosamente e cadono all’improvviso paralizzati. Allo stesso modo i movimenti avvolgono gli uomini, li circondano – un gioco di tratti e di linee orizzontali, verticali, che attraverso il movimento si volgono in direzioni diverse, macchie di colore che si ammucchiano e si disperdono, che danno un suono ora alto, ora profondo. L’opera d’arte si rispecchia sulla superficie della coscienza. Essa sta al di là e si dilegua sulla superficie, senza lasciar traccia, appena scomparso lo stimolo. Anche in questo caso c’è una specie di vetro trasparente, ma saldo e duro, che rende impossibile il diretto rapporto interno. Anche qui abbiamo la possibilità di entrare nell‘opera, di divenirne parte attiva e di vivere con tutti i sensi la sua pulsazione”. (Wassily Kandiskij, Introduzione a Punto linea superficie, edizioni Adelphi)
Perdersi e ritrovarsi in una città post-moderna
Giuliana è ferma immagine tra le lamiere e il cemento di una Ravenna postmoderna. I disarmanti silenzi all’Antonioni lasciano spazio al colore maestoso capace di bucare lo schermo, anche quando veniamo travolti dai rumori di una sirena o dai sussurri sordi provenienti dal dentro/fuori dei personaggi. La città e le sue vie partecipano, presenti. Il colore diventa linguaggio, un’eco della non comunicazione tra i personaggi. Le parole si perdono, le frasi di Giuliana sono spesso no-sense, a singhiozzo, come gli scatti improvvisi dei suoi gesti, del corpo che si fa pensiero, chiudendosi in sé stesso mentre la nebbia arriva all’improvviso, avvolgendo tutto e tutti.
“Nella campagna nei pressi di Ravenna l’orizzonte è occupato da fabbriche, camini, raffinerie. La bellezza di quella vista mi colpisce molto di più della linea anonima di una pineta scorta da lontano, rettilinea, di colore uniforme. La fabbrica è più varia, più vivace, perché dietro si avverte la presenza dell’uomo con la sua vita, i suoi drammi, le sue speranze. Io sono a favore del progresso, eppure mi accorgo che per la sua violenza è portatore di crisi. E tuttavia è la vita moderna, il domani che già bussa alle porte”. (Michelangelo Antonioni)
Cercare il proprio luogo: Should I stay or should I go? Ravenna/Patagonia.
Corrado (Richard Harris) collega e amico di Ugo, è l’unico che conoscerà Giuliana per quello che è realmente. Lei gli chiederà se sia “di destra o di sinistra” ma Lui non risponde perchè è come un domandare in cosa si crede, sono parole immense e richiederebbero risposte precise, che non esistono. Lui fugge dalle responsabilità, dal confronto, vuole solamente una coscienza tranquilla negando l’espressione delle proprie opinioni. Sente quindi di non avere diritto di essere dove si trova adesso, dirigente di una fabbrica sull’orma del padre, per automatismo. Ha sempre voglia di andarsene nonostante sappia che il viaggiare ha senso solamente se si cambia ambiente storico. Giuliana guarda con lui la mappa geografica della Patagonia, domandandogli se esiste un paese in cui si possa stare meglio. Il Partire per poi ritornare, forse un po’ diversi. Non è mai così semplice decidere cosa portarsi dietro: o tutto o niente.
“Il n’y a plus que la Patagonie, la Patagonie, qui convienne à mon immense tristesse”. (Blaise Cendrars, Prose du Transsibérien)
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