Melancholia, l’inquietudine del cambiamento

Melancholia, l’inquietudine del cambiamento

June 23, 2016 0 By Mariangela Martelli

Melancholia del 2011 è la seconda pellicola della trilogia della depressione di Lars von Trier. L’incipit anticipa il finale, le note wagneriane del “Tristan und Isolde Prelude” scandiscono in fermi immagine senza tempo né spazio, l’amore del regista per l’arte figurativa: i passi de “I cacciatori nella neve” di Bruegel il vecchio sono gli stessi che fanno sprofondare una giovane donna nel prato mentre solca una possibile via di fuga con il figlio in braccio, passi lenti e pesanti incisi nel verde profondo, mentre la fatica del respiro e l’inverno senza fine rimangono imprigionati per sempre sulla tela e in lei. Lunghi rami trascinati e portati sempre con sé ancorano alle cose fisse come fili d’abitudine mai recisi: una continuità che non c’è, l’abbandonarsi alla superficie stagnante diventa necessario. Stringe il bouquet tra le mani e giace abbandonata agli eventi, malinconica sposa preraffaellita.

Ophelia

Melancholia è il pianeta che annienta e ricompone, secondo il proprio ordine, la storia di due sorelle: lati opposti dello stesso mondo che seguendo il proprio tempo interiore, arriveranno a conoscersi nell’altra.

QUADRO PRIMO: JUSTINE

La certezza del conosciuto vacilla: Antares, stella dello scorpione, illumina la notte di festa di Justine (Kirsten Dunst, premiata a Venezia come miglior interpretazione femminile) il cui lento scrutare d’occhi non è un miraggio lontano ma il punto fermo. Rispettare le tappe della scaletta scandita dalla sorella Claire è d’obbligo per sembrare perfetti. Fugge dall’atavico rituale che la vuole co-protagonista e dalle figure di non-genitori e datori di lavoro che la eclissano in umori mutevoli: un rifugio effimero nel torpore della vasca da bagno, sospiri che evaporano dalla sua essenza crepuscolare. Una manciata di ore o un’esistenza trascorsa con l’altro sono solamente due frammenti in collisione che si annullano a vicenda, si domanda allora se tutto questo sia esistito davvero. Il ballo con gli uomini della sua vita è un aprirsi alla danza macabra: unica certezza del macrocosmo che si propaga verso il microcosmo, a velocità costante. Melodia di galassie fluttuanti nel silenzio, il terrore di cadere in un passo sbagliato è sulla punta delle dita, è elettricità che precipita sulla terra come lanterne cinesi gettate al cielo ma rimaste troppo attaccate alla fiamma. Nelle stelle del mattino, pone la parola fine a ciò che non vuole veramente, recidendo in modo irreversibile quei lunghi fili grigi che l’attanagliavano: adesso barcolla sulle sue sole gambe. “Poteva essere tutto diverso, però cosa ti aspettavi?” dirà all’uomo che l’ha sposata.

Dance

QUADRO SECONDO: CLAIRE

Claire (Charlotte Gainsbourg) è sorella maggiore, moglie, madre. La solidità logica, la responsabilità, il pilastro fermo della famiglia, ma non di se stessa: le sue fondamenta crolleranno inesorabili all’emergere del vortice del non-conosciuto, è nuda fragilità nella stanza vuota, affacciata sull’esterno tra luci e ombre intrise di Nostalghia, alla Tarkovskij. Distanze che si amplificano e si estendono oltre i vetri opachi. Incontra di nuovo Justine, adesso sprofondata nella depressione e cerca di smuoverla dal suo male di eterno-vivere, prendendosene cura, ma i loro riflessi si capovolgono all’entrata in scena del pianeta Melancholia: l’ignoto ruota intorno all’orbita della terra cospargendo la loro quotidianeità con il velo dell’incertezza. Clair de lune diviso a metà: un dark side che lascia Claire instabile, confusa, vuota nella discesa verso qualcosa che non ha mai compreso, i suoi occhi cercano appigli al proprio mondo di un tempo che non esiste più; Justine, invece è pura catarsi: tra le bacche del giardino la sua pelle è sfiorata dalla neve fuori stagione, scopre la fisicità nell’armonia di un notturno pieno di luce lunare, il suo sentire è lo stesso del silenzio cosmico: non finge più di sapere le cose, niente è mai stato così vero.

QUADRO TERZO: MELANCHOLIA

bruegel gifFratture che lacerano dentro e galleggiano chissà dove, cancellando le abitudini e i ruoli di sempre. La possibilità di fuga dall’asimmetria fluida dell’anima si blocca nel rifiuto della prospettiva del cambiamento: si cerca di scolpire nuove forme esterne attraverso i ritmi interni delle radici che mutano, senza sosta in qualcosa di indefinito e sconosciuto. Lars von Trier ha avuto l’intuizione per Melancholia durante il periodo di psicoterapia per curare la propria depressione: la volontà di tradurre in immagini (a dir poco evocative) la psiche umana sull’orlo di un’imminente catastrofe naturale. Era affascinato dal vedere come l’essere umano potesse agire in condizioni di estrema pressione esterna. Uno psicoterapeuta gli aveva detto che in situazioni di forte stress esterno, le persone depresse sono in grado di agire con più calma rispetto agli altri.

I ritmi frenetici e traballanti degli interni si distendono negli esterni pieni di infinito ed è qui che Leo, il figlio di Claire collega i lati opposti delle due sorelle, con la spontaneità e la verità inconscia del suo essere bambino, insegna loro a trovare una serenità quando tutto intorno è caos. La grotta magica è il luogo dove il bambino non può avere paura ma è anche la promessa di zia Justine al nipote di costruirne tante insieme, appena possibile. Loro tre si siederanno nel tempio/tempo antico: un’idea di rifugio abbozzata con pochi bastoni di legno che si erge come simbolo arcaico di casa, di interiorità, di ritorno viscerale allo stato uterino. Sotto il soffitto del cielo sono immersi dalla prospettiva del pianeta in espansione/collisione verso di loro. Era una cosa talmente piccola e lontana prima che sfuggisse al loro controllo! La lentezza apparente dello spazio non esiste, il passaggio di Melancholia è uno spettacolo affascinante, maestoso e inquietante al tempo stesso. Mani che si stringono, in un cerchio che traccia il ritorno all’origine, verso la rinascita del vuoto.

LA GROTTA

Mariangela Martelli