Chiose a margine de La Grande Bellezza

Chiose a margine de La Grande Bellezza

July 4, 2016 0 By Francesca Sordini

Questo articolo è frutto due esigenze. La prima, necessaria, di stampo cronachistico, è dovuta alla decisione delle case di distribuzione di riproiettare al cinema per soli tre giorni (27, 28 e 29 giugno) La grande bellezza in versione integrale, con le scene espunte dal montaggio finale. La seconda esigenza, più personale, è una remissione dei peccati nei confronti di un’amica che trascinammo in sala nel 2013, sull’onda dell’entusiasmo, di critica e di pubblico, che il film suscitò. La suddetta amica non ce lo perdonò mai, e da allora smettemmo di portarla al cinema di nostra iniziativa.

A suo tempo andammo, e soffrimmo. Il film dura due ore e venti, la versione estesa quasi tre ore. Troppo per qualunque film. Andiamo indietro con la memoria, per ricercare film la cui lunghezza non affligge la qualità complessiva della pellicola. C’era una volta in America di Sergio Leone (due ore e venti), ma anche Antonioni (L’avventura, sempre due ore e venti), e ancora Kubrick (2001: Odissea nello spazio, stessa durata) e Francis Ford Coppola (Il padrino, tre ore nette).

Niente da fare, ci vuole un certo talento per girare film così lunghi. Quando questo talento manca, il consiglio è di tagliare impietosamente in sede di montaggio. Il suggerimento per Sorrentino vale doppio, dato che la storia che il regista ha voluto raccontare – magnifica, connaturata all’uomo di genio e perciò eterna, ovvero l’artista alle prese col blocco creativo – poteva benissimo esser detta con mezz’ora di meno.

Essendo d’animo classicista, e dunque convinti che molto di quel che c’è di buono al mondo l’abbiano inventato gli antichi, noi siamo del partito del mèga biblìon mèga kakòn callimacheo, antesignano ellenistico del less is more di Rohe, ovvero del minimalismo ad oltranza, poiché la bellezza sta nei rapporti puliti e netti, mai nell’eccesso e nella sovrabbondanza. Precediamo in tal senso i fanatici del barocchismo e della magniloquenza aggiungendo che il massimalismo, comunque lo si voglia intendere, ha bisogno di un principio ordinatore, razionale, superiore e autoritario, che lo raccolga nella sua complessità.

La grande bellezza manca esattamente di questo principio, ed infatti eccede in tutto: nella lunghezza, nella regia, nelle inquadrature, nei personaggi, nelle tematiche proposte. Che cosa si poteva tagliare? Almeno cinque minuti della festa in terrazza iniziale, la famosa scena che mandavano tutti i tiggì quando il film di Sorrentino ebbe il suo momento di gloria. La scena dei fenicotteri, che nessuno ha capito ma che tutti millantano di poter spiegare. La scena in cui Galatea Ranzi si butta in piscina nuda (l’avevamo già capito che era rimasta sconvolta dalle parole di Jep Gambardella). La scena dei nobili a noleggio, con la contessa che riascolta l’audioguida di fronte alla culla conservata nella teca del gelido palazzo (inutile, che fossero decaduti l’aveva già detto il protagonista almeno dieci minuti prima, e sì, lo sappiamo che è espressione di una Roma gentilizia che non c’è più).

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Jep, in cui tutti gli snobissimi intellettuali della nostra società si sono man mano identificati, è il contraltare sorrentiniano del céliniano Ferdinand Bardamu. E’ un personaggio cinico, disincantato, sprezzante e senza peli sulla lingua, e tuttavia ipocrita, giacché tutto quello che disprezza fa parte del suo ormai consolidato stile di vita. L’argutissimo Jep non si è accorto che gli strali che indirizza ai sedicenti artisti può benissimo volgerli contro se stesso? A Talia Concept lo smaliziato esteta dice: “Sei fuffa, non dirmi come gli altri che un artista non ha bisogno di spiegare nulla”. E no, Talia Concept non è la controparte dello stesso Jep, perché Jep alla fine del film trova la salvezza. Dopo le penose scene di gioventù, che sembrano uscite da una brutta fiction televisiva, con Annaluisa Capasa che nell’unico momento in cui apre bocca fa rimpiangere la bella epoca in cui i registi facevano doppiare le attrici con problema di ortoepia, Jep, su consiglio della Santa, che gli ha detto quello che lo spettatore sveglio aveva già capito da un’ora e mezzo, torna al Giglio e si fa passare il blocco dello scrittore.

Tutto questo si poteva dire con meno ambizione, ma soprattutto si poteva dire meglio. Nessuna delle frasi che Jep pronuncia è davvero rivoluzionaria, aforistica, spiazzante. Jep vuol fare l’Alexander Pope del XXI secolo, ma non gli riesce per un semplice difetto di sceneggiatura. Tant’è che le battute migliori sono affidate a Carlo Buccirosso (bravissimo, a dispetto di tutte le mediocri commedie cui continua impunemente a prendere parte): “Jep e la vocazione civile non sono mai andati d’accordo, lui era pigro, lei iperattiva”, “Non scherzo mai col demonio”, “Noi ci stiamo divertendo molto molto”. Se tolte dalla cornice pomposa, magniloquente e inutilmente barocca in cui sono pronunciate, alcune delle battute di Jep e tutte quelle della Santa sono di una banalità devastante.

lgb gif33A questa cornice Sorrentino deve tutto. La grande bellezza è un’opera pretenziosa e ruffiana, pensata con l’intento di omaggiare la magnificenza di Roma e di denunciare la povertà spirituale e materiale di chi la abita e tuttavia vuol atteggiarsi a suo difensore. Ma in realtà è un’opera concepita per accalappiare premi e riconoscimenti, forte del fatto che il mondo, di fronte alla bellezza di Roma, necessariamente s’arresta ammutolito. Oltre a questo magnifico contenitore, a livello di sostanza, di carne, di materialità, non c’è niente. Nel film non c’è una sola scena che non sia già vista, e alcune volte il plagio risulta palese, da intendersi beninteso come omaggio ai grandi del passato, mentre in altri casi ci vuole un occhio più fine. Via Veneto c’era già ne La dolce vita, di cui La grande bellezza non è che una copia opaca e sbiadita. I chierichetti li aveva già filmati Antonioni nel ’60. La scena della bambina che getta vernice sulla tela è di Mazursky, anno 1978. Quella della visita ai palazzi romani è simile all’episodio della festa organizzata dai Mascalchi ne La dolce vita. La risposta di Jep all’ennesima domanda sul perché non abbia più scritto un libro dopo L’apparato umano (“Perché sono uscito troppo spesso la sera”) è il brutto contraltare della battuta pronunciata da Robert De Niro in risposta a Larry Rapp (“Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni?”, “Sono andato a letto presto”) in C’era una volta in America. Non sono omaggi: è solo un inutile copiaticcio.

Peccato. Servillo è bravo, ci piace, è nel personaggio. Roberto Herlitzka gli sta subito dietro, anche se ci rimane oscuro il significato della passione culinaria attribuitagli senza ragione. Onore a Carlo Buccirosso, di cui abbiamo già detto, e a Carlo Verdone, che sfoggia inattese capacità da attore tragico. Il suo Romano è forse l’unico personaggio davvero sincero del film, in mezzo alla Roma cafonal che vuol essere la capitale dell’Impero ed invece si scopre desolatamente alla periferia, assieme a Ramona, ovviamente (l’anagramma è tra le cose più infelici del film). Un’ultima risposta a quelli che dicono che la Ferilli sia stata bravissima: ribattiamo che non è bravura, ma natura.

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Francesca Sordini
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