Blackhat, l’estraneità dei corpi

Blackhat, l’estraneità dei corpi

July 5, 2016 0 By Angelo Armandi

blackhat posterIl corpo, l’idea del corpo, il desiderio della corporeità, ci tranquillizzano. Non solo il corpo è alla base dell’esperienza materica del mondo, ma anche una presenza cardinale, immobile, da studiare, fronteggiare, sconfiggere. Privata del corpo, la realtà entra in una dimensione straniante, ambigua, destrutturata, senza gli elementi che ci consentono di elaborarla. La progressiva dematerializzazione dell’esperienza umana, supportata dalla crescente digitalizzazione della realtà, ha posto le basi per un sovvertimento radicale di tutte le strutture tradizionali della società, compresa la criminalità. Michael Mann, nuovamente ispirato da fatti di cronaca, confeziona Blackhat, ovvero “l’hacker cattivo”, un thriller atipico sospeso nella dimensione eterea del cyber-crimine.

Del blackhat si tace il nome, oltre che la rappresentazione visiva, ad evocare l’idea di un criminale sfuggente, incorporeo, in grado di far esplodere una Centrale Nucleare in Cina e, poco dopo, di aumentare le quotazioni della soia, eppure invisibile, irrintracciabile. Il governo cinese e i servizi segreti americani chiedono l’aiuto dell’hacker Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth), detenuto in un carcere della Pennsylvania. Hemsworth, la quintessenza della corporeità, è l’attracco fisico di un universo criminale che si muove in codici, malware, indirizzi IP, pacchetti dati che scivolano tra i cavi di rete di periferiche dislocate in tutto il globo e ricostruiti visivamente da Mann in sequenze di potenza visiva alienante, in cui la macchina da presa insegue la corsa dei dati lungo circuiti sterminati, perché il crimine si annida nella dimensione di un passaggio di corrente, ad una velocità che lo sguardo fatica ad inquadrare.

Se il crimine è informatizzato, i meccanismi con cui viene snidato non possono privarsi dell’antica forza della carne, la brutalità di uno squarcio sanguinante, la frenesia di un inseguimento, le stordenti esplosioni d’auto, con un progressivo ritorno al contatto dei corpi e allo studio psicologico del rapporto vittima-carnefice, la salvezza finale dall’alienazione dei codici criptati in verde fosforescente sullo schermo nero dei monitor. Mann, in definitiva, non ha rinunciato al suo immancabile realismo, che oltre ad essere una cifra stilistica, è fondamentale per comprendere la sostanza al di là della patinatura digitale delle macchine da presa.

blackhatgif33Mann è uno dei pochi baluardi di un cinema hollywoodiano libero da condizionamenti, un esempio di integrità intellettuale e di raro istinto suicida. Questa pellicola (assieme ad alcune precedenti, tipo Miami Vice) puzzava di flop sin dalle premesse, e gli incassi non hanno smentito un olfatto che ormai riesce a prevedere certe ordinarie dinamiche. Eppure Mann ha lavorato partendo da un’idea che lo ossessionava, e che ha perseguito senza alcun compromesso (ode!): un inseguimento sfrenato (nella misura della decriptazione di codici) ad un hacker senza corpo, di cui si fatica a seguire il disegno criminale, intrappolato in schemi dagli obiettivi sfuggenti, talvolta incomprensibili per l’esattezza tecnica dei dialoghi o la complessità di certi snodi narrativi.

Non è un universo che appartiene all’esperienza della gran parte degli esseri umani (tranne a quelli che navigano nel Deep Web, forse), salvo, ovviamente, le motivazioni che spingono il blackhat a compiere il crimine ingrassando beatamente dietro un monitor, che non si allontanano da quelle ferree, tradizionali, radicate nelle velleità dell’uomo miserabile (il che è riconducibile ad una certa prevedibilità della trama, che è alla base di alcune delle critiche al film, ma ci torno tra un po’).

La riflessione di Mann sull’informatizzazione del crimine lascia respirare anche altre considerazioni di ordine meno drammatico, ma che comunque confermano quanto egli sia profetico nelle sue opere: giochiamo quotidianamente con un sistema, quello virtuale, che non conosciamo; stipuliamo contratti virtuali con le aziende informatiche senza leggerne i termini, con la possibilità di falsificare i dati, oltre che di condividerli massicciamente. Questo sistema, all’apparenza così goliardico, che accarezza il pettegolezzo e tollera l’opinionismo come diritto inalienabile, è un’enorme voragine in cui affluiscono centinaia di migliaia di dati che possono essere violati senza troppe difficoltà, contro cui non abbiamo difese, perché non appartiene alla sicurezza dell’universo materiale. “Sempre connessi”, recita il sottotitolo italiano del film, lasciando quell’impronta di pensiero tutto sommato felice, legata al nostro desiderio spasmodico di controllare le notifiche di Facebook. “We are no longer in control”, recita il sottotitolo originale, e allora l’incanto della rete svanisce nella consapevolezza, demistificante, che la privacy è un ricordo lontano, ed irrecuperabile.

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Mann ha cercato di contrapporre la riflessione sulla dematerializzazione del crimine in relazione alla dematerializzazione delle nostre identità. La potente critica americana non ha tollerato di Blackhat l’insistente ostentazione dell’immagine a ricoprire una trama lacunosa (o debole, o prevedibile, o incomprensibile) e personaggi dalle psicologie sottili, statiche, senza alcuna consistenza o problematicità, e dialoghi piatti, stereotipati, talvolta stucchevoli (il richiamo all’11 settembre, ad esempio, forse l’unico elemento della critica che sento di condividere). Come conciliare la maniacalità di Mann per i suoi prodotti con queste definizioni di rara sciatteria?

La sovrabbondanza della tecnologia nella messa in scena illustra i meccanismi attraverso cui si dispiega il crimine in questa forma ambigua (un rilevatore Bluetooth diventa la chiave di volta dell’indagine, e chi ne ha mai visto uno?) e contribuisce alla sontuosità visiva dell’immagine. L’altra tecnologia, quella adoperata per realizzare il film, altrettanto diversificata ed elaborata, tanto nei mezzi quanto nelle scelte di ripresa, è parimenti l’estrinsecazione della ricerca “manniana” (ovvero maniacale) per la perfezione stilistica. Sfruttando ogni possibile tecnologia, Mann potenzia l’aspetto visivo, elevandolo ad elemento cardinale, sostanziale oltre che strettamente formale, al punto da oscurare gli altri piani dell’opera (persino l’inquadratura delle labbra della donna nell’auto, una delicatissima soggettiva di Hathaway, colpisce più per la morbidezza delle luci della notte che per il richiamo ad un pensiero erotico soggiacente).

blackhat gif33333La tecnologia ha intrappolato le anime. Del blackhat si ha paura, si percepisce il pericolo imminente, eppure l’apparato tecnologico è alieno, metallico, elettrico, isolato nei cavi, in un codice binario che traduce intere pagine di scritte senza senso, e allora non si riesce ad averne reale cognizione, si ha la sensazione di perdere il controllo. Se l’intera umanità si sta apprestando ad abbandonare il corpo per corteggiare la tecnologia, sacrificare la propria coscienza, appiattire le pulsioni psicologiche generandone altre a ritmo di bytes, allora l’esplosione visiva di Blackhat non è altro che la forma con cui stiamo lentamente (ri)concependo il mondo. Per identificare la nostra attuale psicologia deputata alla destrutturazione delle cose, era necessario abbattere la terza dimensione dei personaggi, relegandoli al mero ruolo di corpi che si agitano senza direzione tra le sequenze, estranei alla logica dell’immaterialità.

Hathaway, nel corso dell’indagine, si libera progressivamente della tecnologia opprimente (partendo dal localizzatore che gli intrappola la caviglia, e chi ne ha mai visto uno?), mentre si infiltra dapprima in un computer dei servizi segreti per sfruttare illegalmente un loro potentissimo programma di decriptazione di codici corrotti (e chi ne sapeva niente?), per poi imbottirsi di armi per il confronto finale (che piacevole ritorno!): svincolato finalmente dalla miriade di asettici meccanismi informatici, Hathaway sembra riappropriarsi della propria identità.

Forse per Mann è questo il prezzo da pagare per acquisire nuovo spessore e liberarsi della forma. In questi termini, persino l’universo glaciale di Blackhat appare come un affresco di straordinaria umanità.

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Angelo Armandi