Every Thing Will Be Fine, scrivere per tornare a vivere

Every Thing Will Be Fine, scrivere per tornare a vivere

August 27, 2016 0 By Mariangela Martelli

locandina

Every Thing Will Be Fine è un lungometraggio di Wim Wenders presentato fuori concorso alla mostra del Cinema di Berlino del 2015, durante la quale il regista è stato premiato con l’Orso d’Oro alla carriera.

Basandosi sulla sceneggiatura dello scandinavo Bjorn Olaf Johannessen, (i due si erano conosciuti ad una precedente edizizione del Sundance) Wim torna alla fiction mantenendo il legame con la realtà attraverso l’utilizzo del 3D, già sperimentato nei suoi due precedenti documentari Pina e Il sale della terra.

L’ENIGMA DEL 3D

Persone e oggetti non sfuggono dall’occhio delle videocamere in 3D: tutto è esposto a essere e non a sembrare. Wim raccomanda quindi ai suoi attori una recitazione pacata e misurata perchè esposti costantemente a questo “sguardo” che li scruta dentro, in grado di rivelarne ogni minimo errore o menzogna. Per evitare il rischio di cadere nell’eccesso, si esprime il proprio sentire in gesti e parole mai urlate: ed è questo uno dei principali motivi per cui il regista tedesco ha voluto nel cast solamente persone spontanee, capaci di trasmettere con semplicità sé stessi e di reagire con naturalezza all’enigma del 3D, senza esserne risucchiati.

James Franco recita in maniera minimale, senza esasperare mai i toni, Charlotte Gainsbourg (che interpreta Kate) si cala perfettamente nel ruolo pur rimanendo fedele a come è nella vita reale: come ci racconta Wim in un’intervista “I grandi attori sono sempre sé stessi”: è questo ciò che cerca nei suoi lavori e che diventa fondamentale per riuscire a comunicare tramite il  3D la nuda veritas, senza filtri. Tutto appare chiaro dettaglio, amplificato dalla lente della tecnologia: il raccontare assume una dimensione profonda, entrando nel pubblico le immagini e inquadrature hanno uno spessore nuovo (il linguaggio) ma la luce con cui viene scritto è antica e ci mostra le cose per ciò che sono: forse non siamo abituati a vederli, questi strati di umori lontani che si avvicinano a noi.

“Campi e boschi sembrano sospesi in una qualche inevitabile mezza distanza, al tempo stesso statica e fluida, rapida, come un miraggio.” (William Faulkner, Luce d’Agosto, Adelphi)

Wyeth Wim collage

PARALLELISMI TRA SPAZI IPERREALI E TECNOLOGIA

Wim Wenders, riguardo alla realizzazione del film, racconta di non aver mai trascorso così tanto tempo a sistemare gli oggetti sul set. Sa bene che il 3D richiede la massima organizzazione degli spazi e che dilata la cognizione del tempo: non solo per le riprese nei luoghi del film (che sono durate un paio di anni), ma anche per gli eventi narrati che iniziano e si concludono nell’arco di dodici anni, come stagioni che si rinnovano lente, nella loro eternità.

La natura ha un ruolo chiave nel film: quello di trasmettere la sua energia agli attori e a noi spettatori: ed è solamente grazie alla sua particolare luce che la percezione dello spazio si fa più intensa. Wim ne ha appreso le basi dalla pittura, definendo Edward Hopper come “il suo vecchio maestro”: infatti, come il pittore americano, è affascinato dai dettagli degli oggetti negli interni/esterni in rapporto alla luce/spazio. Il desiderio del regista di avventurarsi oltre la cornice è forte: trova così nell’iperrealismo del pittore Andrew Wyeth la propria “guida spiritualenon solo per avvicinarsi al 3D (mettendo il film nelle condizioni di trascendere il quotidiano) ma per trovare, (come locations per le riprese) i luoghi che evocassero le atmosfere respirate nei dipinti. Cogliamo, in questo modo, l’attimo con semplicità, senza cercare per forza un significato al lirismo che la vita di tutti i giorni può regalarci. Inoltre, le barriere che di solito ostacolano una fedele trasposizione degli eventi, vengono di fatto annullate, svelando allo spettatore l’interiorità dei personaggi, vediamo ciò che di solito rimane invisibile.

Wim ammira Wyeth, un’altra figura che nella vita è andato controcorrente, osando con l’iperrealismo quando tutti si dedicavano all’astrattismo: “Wyeth è per me nella pittura ciò che Ozu è nel cinema”.

Ozu Wim Collage

Si ha l’impressione di guardare l’essenza di queste scene/instantanee: il direttore alla fotografia, Benoit Debie ha seguito questo particolare approccio alla luce, trascrivendone i contorni e trascendendo le forme non più vuote. Nonostante Wim voglia superare i limiti della sceneggiatura con la tecnologia del 3D, come colonna sonora sceglie la musica classica composta da Alexandre Desplat, illustrandoci che “l’apparente paradosso” è stato necessario per rendere l’esperienza visiva/uditiva dello spettatore ancora più intima. La tecnologia è quindi uno strumento per farci vedere le cose come sono, ma allo stesso tempo è per Wim l’unico modo per cercare e riscoprire le proprie radici: separarsi dal lato tecnologico e creare una connessione con la natura è una ricerca costante, che il regista riprende adesso nel post- documentario su  Salgado, per il ritorno alla vita di Tomas (uno scrittore del nostro tempo che lavora “a mano” con carta e penna). “Don’t be a writer, be writing” –William Faulkner.

 Wim ha voluto James Franco come protagonista di “Every Thing will be fine” non appena si sono conosciuti. Sa che James è anche scrittore, quindi può comprendere il conflitto che dovrà affrontare  nel film: il senso di colpa da parte di chi scrive per mestiere (o di un artista in generale) nel prendere “spunto” dalle situazioni reali, andando di fatto oltre il confine che lo separa dagli altri. Il protagonista Tomas rielabora un’esperienza traumatica nel corso del tempo, assimilandola e inchiodandola su carta. Migliora come scrittore e conosce il successo. Ma fino a che punto è autorizzato a prendere dall’intimità altrui? Tomas non è un alter-ego del regista: sebbene condividano entrambi lo stesso punto di vista nel processo che li porta alla realizzazione di un’opera. Wim guarda il suo scrittore dall’esterno, come puro personaggio di finzione ma avrà modo di scoprire due lati veri di colui che lo interpreterà: il James/insegnante aperto, cordiale e socievole (durante il loro primo incontro in un cafè di N.Y. James lo invita ad assistere a un seminario di sceneggiatura che sta tenendo ai suoi studenti.) nonchè il James/attore concentrato nella sua disciplina zen, sempre presente sul set anche durante le pause, con un libro che posa non appena lo chiamano a girare la scena.

cornice collage

ISOLAMENTI VOLONTARI

Tomas si sveglia, tra quattro mura di legno. Il caffè è sulla stufa, sulle ginocchia è posato il taccuino. É nel periodo di isolamento volontario che ogni scrittore (e non solo) prima o poi ricerca per non essere intaccato da influenze esterne. Vorrebbe scrivere della vita e vivere di scrittura. Scosta la tenda e dal vetro della finestra il riflesso del fuori di ghiaccio assorbe il suo viso. Passeggia sul molo, perdendo il filo in una non-conversazione al telefono con la sua compagna, Sara (Rachel McAdams). Prova a non pensare mentre guida ma improvvisamente il terrore di aver investito qualcosa (o peggio ancora qualcuno) lo blocca: il sollievo, nel constatare che il bambino non è ferito. Tomas lo porta sulle spalle verso casa, racchiusi in una fragile bolla a mezz’aria nel giorno che sta morendo. Continua a ripetere che “tutto andrà bene” al bambino, alla compagna al telefono e a sé stesso. Sul muro accanto alla porta è attaccato il disegno stilizzato di tre figure con casa. La tragedia di ciò che è avvenuto è un’incisione nel crepuscolo d’inverno: la madre (Kate/Charlotte Gainsbourg) cerca con gli occhi il figlio più piccolo, corre e urla nell’assenza che durarà per sempre. E ne siamo straziati. Tomas sente piombargli addosso tutto lo spazio vuoto tra sé e le cose: lo aveva percepito, come un triste presagio, quando le distanze si erano allungate sulla via di casa,  allontanando la sua figura dallo sfondo irraggiungibile.

I mesi che seguono sono un rifiuto da ciò che gli è sfuggito. L’oblio blu della solitudine tra specchi rotti, scritte oblique di motel, telefoni senza risposta cede presto il posto alla disperazione totale, disorientata da muri d’oscurità senza vie di fuga. Nel mentre c’è la vita sospesa di Sara che lo rivedrà all’ospedale: preoccupata dal crollo dell’uomo con cui pensava di realizzare i propri desideri. La tenda tirata li circonda in un isolamento momentaneo, annullando la stanza in cui si trovano.

La memoria crede prima che il conoscere ricordi. Crede più a lungo di quanto rammenti, più a lungo perfino di quanto il conoscere immagini. Conosce, ricorda, crede un corridoio dentro un grande, lungo, complicato edificio buio, freddo e rimbombante.” (William Faulkner, Luce d’Agosto, Adelphi)

Lei prova a donargli  tutta la tranquillità di cui ha bisogno, per star meglio ma il rumore nel silenzio dei gesti, il timore di non capire l’altro è nell’abbraccio spezzato di due sopravvissuti. Strade da ritrovare non più insieme, l’esperienza come una cicatrice permanente che Sara porterà dietro cercando di dimenticare quel che è stato, per proteggere il futuro che la attende. Lui cerca di rielaborare il nuovo mondo che ha plasmato dalla distruzione riprendendo a scrivere e come gli dice l’editor, capisce che “ogni avvenimento, prima o poi può trasformarsi in una risorsa” : la sua scrittura è diversa perché  la vita lo sta cambiando.

Due anni dopo conosce il successo e per chiudere un cerchio ritorna sul luogo in cui tutto ha avuto inizio e fine. Eppure continua a sentirsi responsabile: non solo per aver influenzato il corso degli eventi personali e altrui, ma per aver anche intrecciato dei legami con degli estranei, da quella sera in mezzo alla neve. Kate si avvicina, non capisce perché lui sia lì. Tomas vuole aiutare lei e suo figlio Christopher, ma i ruoli si invertono: sarà la donna a liberarlo dal senso di colpa per quanto accaduto. Sappiamo che il primo passo per superare un problema (o in questo caso un trauma) è quello di parlarne, dando e ricevendo empatia. Tomas non ne è in grado ma verrà aiutato dalla donna: si conoscono nelle telefonate notturne, durante le tregue dall’insonnia fatte di scrittura e disegni. Nello split screen sfumato, i due sono tra le idee e stimoli che si raccontano, per andare avanti. Per Wim è Kate la vera eroina del film: è capace di stare con gli altri perché sa stare da sola con sé stessa. Il regista la veste con il linguaggio del filosofo austriaco Martin Bubber, in quanto unica persona all’interno del film in grado di dire e diventare la parola io-tu. Lei è la custode autentica della propria vita e dell’incontro con Tomas: non sono necessarie implicazioni sessuali per condividere il senso di fusione tra i due. Il loro dialogo è anche nei movimenti muti,  nel rituale che compiono insieme e che li fa essere completi perché conoscono sé stessi nell’accettare l’altro come persona. E come nei romanzi di William Faulkner, il passato viene esorcizzato nella deflagrazione: pagine di parole esistite un tempo diventano cenere che si posa sui loro occhi stanchi. Connessioni a mezz’aria: la lampada rossa rischiara il sonno degli adulti sul divano e del bambino racchiuso nello sfondo in mezzo a loro.

Anche Kate, come Tomas è una persona che ha scelto la solitudine come “stile di vita”: vive per i figli in campagna, lasciandosi sfogliare dall’eternità dei giorni, mesi, anni. Taglia la legna per riscaldarsi dall’inverno, in primavera passeggia nei boschi intorno, d’estate lavora alle sue illustrazioni “su commissione” mentre dalla finestra l’aria dorata le sfiora i pensieri, posandosi sul tavolo della cucina per raggiungere la sua mano e riempire i fiori nati su carta. Petali di ricordi non più contaminati dalle lacrime aride, come proiezioni immobili gettati nei giorni appassiti e adesso mutati in forme pulsanti che sanno della piena domenica d’Agosto.

Andrew Wyeth - Wind from the Sea, 1947

Andrew Wyeth – Wind from the Sea, 1947

Ogni vita reale è incontro, rielaborato da ognuno in modo diverso: c’è chi lo ricorda in un disegno, chi in un romanzo. Christopher, (Robert Naylor) diventato adolescente, scriverà una lettera a Tomas chiedendogli di vedersi. Il rifiuto da parte dell’uomo (per non avere coinvolgimenti emotivi durante la fase creativa) non impedirà a Kate di divenire un tramite invisibile per realizzare il desiderio del figlio. Nel cafè, il ragazzo vuole la conferma della propria identità:  vede il proprio passato nelle pagine del libro, nel punto di rottura che gli farà dire: “I tuoi romanzi precedenti non erano così buoni.” Riflessi di vetro come strati su ciò che vorrà diventare (scrittore) e su come ha sempre visto Tomas (una figura paterna mai avuta).

DISTURBO DELLA QUIETE PRIVATA

Quattro anni son passati  e Tomas si sta rifacendo una vita con la nuova compagna Ann (Marie-Josée Croze) e Mina, la figlia di lei. Un’idea di serenità domestica viene capovolta dal sentore di qualcosa che sta per accadere: la pistola giocattolo mette tutti in stato d’allerta ma non impedisce agli imprevisti di frantumare il fragile equilibrio, facendo crollare certezze a lungo costruite. Sono mani a confronto, sul tavolo rientrati a casa: quelle della donna tremano e si focalizzano sulla calma distaccata di quelle di lui, chiedendosi se sia possibile solamente a seguito di un  evento traumatico riuscire a vedere le cose per quello che sono realmente. Tra i due qualcosa precipita, come l’attrazione del luna park. Un altro salto temporale ci porta al rapporto di Tomas con il padre: “Ritorno alla vita” è una pellicola corale, in cui le varie sotto-trame ruotano intorno al protagonista. Il loro legame, nato a tragedia superata, quando il padre dice al figlio: “Sei tornato alla vita” si stringerà dopo qualche anno, quando Tomas va a trovare l’anziano genitore alla casa di riposo. L’impegno preso sarà posticipato perchè alla partenza il padre vuole andare a vedere il fiume: si siede davanti allo scorrere dell’acqua e il figlio lo raggiunge in un abbraccio che li unisce, probabilmente, per la prima volta. È una scena di grande pathos: come se insieme leggessero il significato del tempo.

Una finestra trovata aperta per stabilire un contatto, in un’invisibile invasione nella privacy di Tomas e della sua famiglia: nessuno si sente protetto nella casa violata. Sulle tracce lasciate per marcare il territorio, un’ombra si avvicina al di là del vetro, confondendosi con il giardino esterno e il viso di Tomas nel salotto: direzioni di sguardi rivolti l’un l’altro sembrano unificarsi, la porta aperta come invito al confronto. Adesso entrambi hanno di fronte ciò che a lungo hanno cercato: lo specchio che riflette l’esistenza della propria immagine. Le false riproduzioni  create si dissolvono a contatto con la luce, svanendo definitivamente. L’inquadratura verso la strada di casa che prima allontanava Tomas da sé stesso e dalle cose, si rivolge ora al giardino, che li cinge di verde. Lo sguardo del protagonista è come il nostro: verso l’albero in fiore, saldo e centrale che respira e sa della terra, delle cose che siamo. Non esiste più un esterno che ci divide: smettere di pensarci e lasciarlo trascolorare in sé è l’unica cosa che possiamo fare, per un ritorno alla vita.

trees collage

I JUST WANNA WRITE: LO SCRITTORE IMPASSIBILE

di Simone Tarditi

“Ho sempre voluto dire la verità. Volevo usare la mia famiglia come modello per scrivere. Pensavo di essere abbastanza interessante da trasformare la verità in roba che la gente voleva leggere. Potevo andarmene in giro e raccontare a tutti soltanto cose vere, ma che senso aveva? Quando sarebbe diventato interessante? A chi avrei dovuto dire la verità perché diventasse arte? Quand’è che la gente avrebbe iniziato ad accorgersi che stavo facendo qualcosa di artistico?” (James Franco, Il manifesto degli attori anonimi, Bompiani, p. 223)

C’è talmente tanto di James Franco nel Tomas di Every Thing Will Be Fine che diventa impossibile scinderlo dal personaggio interpretato. Eppure, allo stesso tempo, non c’è quasi nulla di simile tra di loro. Un paradosso vero o solo illusorio? L’attore americano ha vestito così bene la pelle di Tomas e si è portato appresso quella carcassa di un altro sé per così tanto tempo (le riprese del film sono durate dall’estate del 2013 all’inverno del 2014, con una pausa in mezzo) che gli apparenti cambiamenti di chi era e di chi è diventato hanno confermato solo quanto poco egli si sia trasformato. Tomas è l’individuo impassibile, quello pronto a reagire a qualsiasi condizione lo affligga o a qualsivoglia situazione gli si pari davanti senza il minimo sconvolgimento. Tomas è l’uomo pronto a distruggersi e ad annullarsi pur di perseguire il suo bisogno d’imprimere su carta quei brandelli di tempo di cui è testimone, strappandoli dal loro effimero destino di svanire come ombre nel buio. Il volto di Tomas è una maschera, immodificabile e sempre identica.

C’è un taccuino sgualcito sul tavolo, delle calze appese ad asciugare, innumerevoli pulviscoli della polvere che oltrepassano i fasci di luce proveniente da fuori. Tomas è rattrappito nel letto, occhi fissi nel vuoto come un morto, alla ricerca di qualcosa da scrivere, senza riuscirci. La ricerca di elementi in grado d’ispirare la sua scrittura all’interno di un luogo chiuso come quello, mezzo-sepolto dalla neve, è una lotta persa contro se stesso. Ecco che un avvenimento tragico, devastante, cambia la sua vita, quella di due persone toccate da vicino e quella di altre ancora. Tomas è la Morte e la sua vittoria è far nascere della vita da questo. Procura morte, ma grazie ad essa torna a vivere (come persona e come scrittore). Vive di morte astraendo dalla realtà del mondo storie e personaggi per le sue opere letterarie, che vivono proprio in virtù dell’essere prodotte e create a partire da qualcosa che non esiste, che non è tangibile: il niente. Riveste una maschera di morte, annullando ogni emozione che possa fraintendere un suo coinvolgimento con ciò che gli capita attorno. E tutti ne sono affascinati, incapaci di essere algidi come lui.

every thing will be fine wenders

Tomas vuole solo scrivere. Tomas vuole solo scrivere per vivere. Tomas vuole ridurre se stesso alle parole che scrive. Tomas non è una persona facile con cui stare, glielo rimproverano tutti, ma non può fare altrimenti, pena smettere di essere se stesso. Non è un percorso semplice, ma è l’unico che Tomas vuole intraprendere, a costo di perdere tutto ogni volta e di ricominciare da capo, azzerando le risorse e facendo affidamento solo a se stesso, a quel taccuino, a quel romanzo in attesa di revisione, ad una nuova tragedia osservata, sfiorata, vissuta. Un costante esercizio di cambiamento, mutamento e adattamento che si dispiega silenzioso sotto a quel viso imperturbabile, a quella maschera impassibile.

Mariangela Martelli