Il sale della Terra, scrivere con la luce

Il sale della Terra, scrivere con la luce

August 29, 2016 0 By Mariangela Martelli

the-salt-of-the-earth-movie-poster-2014-1020772130Wenders/Salgado: L’arte del fotografare in solitudine

L’attività di Wim Wenders come regista ha sempre avuto uno stretto legame con la fotografia, infatti sceglie sempre le locations in cui girare le sue pellicole, (che siano film o documentari) dallo stesso punto di partenza: recandosi di persona sul posto per fare degli scatti perché per lui sono i luoghi a rivelargli la storia da raccontare. I paesaggi, nella natura o nelle città, non sono semplici sfondi ma forze essenziali capaci di muovere la trama e i personaggi.

Nonostante il regista tedesco abbia abbracciato nelle sue ultime opere la tecnologia digitale, si considera un “fotografo-conservatore” in quanto è rimasto fedele alla sua prima idea di fotografia: (nata con le istantanee negli anni ’70) riprodurre la realtà di ciò che vede. Catturar il più possibile ciò che gli sta intorno, perché il senso di pace esiste solamente se il posto è reale. Non ama ritrarre persone e basta: preferisce che siano accanto a un negozio di dischi, mentre percorrono una highway in auto, seduti ad aspettare in un bar o a prendere il sole appoggiati a un edificio. L’arte della creazione, intesa come ricerca per rappresentare il mondo nella sua verità è qualcosa che lo ha sempre affascinato, infatti inizia a fare film come un continuum con la pittura: mettere le immagini una dietro l’altra in sequenza lo interessa maggiormente rispetto alla narrazione in sé.

Oltre al fare film, anche il fotografare è parte della sua vita (infatti diversi books fotografici si affiancano alla realizzazione delle pellicole) fondamentale perché può offrirgli qualcosa che possa fare da solo, senza nessun tipo di obbligo da parte di persone intorno: una sensibilità affine a quella del fotografo Sebastiao Salgado, come due “anime salve”. Per Wim, la solitudine è un valore, qualcosa di sacro per rivelare sé stessi e vedere l’altro in ciò che si crea: che sia una fotografia, un film, un libro o altro. Lo “stare soli” è considerato da molti come qualcosa di negativo, talvolta come una “malattia”, se vista in modo costruttivo è invece un privilegio che in pochi riescono ad apprezzare, fondamentale per legare il pensiero all’azione: l’idea che porta alla realizzazione di un progetto richiede spesso la solitudine per mettere tutto il nostro vedere e sentire, in modo profondo e totale.

“Il nomade rinuncia, medita in solitudine, abbandona i rituali collettivi. É un uomo di fede.” (Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi)

Salgado fotografa da solo, i suoi scatti non lo ritraggono quasi mai: come se egli stesso avesse voluto annullare l’io/prima persona nel racconto del mondo. Lo vediamo raramente nel ruolo di  “protagonista” giusto nelle poche foto di quando torna a casa per riprendere l’altra parte della sua vita: essere padre e marito. La sua attività che lo porta a viaggiare in solitaria, non gli è di peso perché lo fa stare bene. Infatti, quando Wim gli propone di girare insieme il documentario/biografia sul proprio lavoro e vita, Sebastiao mette in chiaro fin da subito di non volere un team intorno: non è abituato a una situazione del genere e la sua preoccupazione è nella possibilità di essere distolto dallo stato che lo fa essere sempre presente “sul campo”. Si arriverà ad un compromesso: il figlio Juliano Ribeiro (scrittore e regista) sarà l’unico a riprenderlo, a dirigere e montare il tutto con Wim. Per Juliano è anche la prima volta ad assistere da vicino al lavoro di un padre sempre lontano da casa, un’occasione per conoscere l’uomo dietro la macchina fotografica. Ricorda di quando era bambino e trascorreva le ore a sentirlo raccontare le centinaia e centinaia d’avventure che portava con sé al ritorno, insieme agli infiniti rullini da sviluppare. Si “ritrovano” adesso, da adulti, tra gli orsi polari e leoni marini nelle terre ghiacciate e per fotografare al meglio questi abitanti primordiali del grande nord, li vediamo tornare fanciulli: si rotolano cercando di imitarli, con gli occhi pieni dell’entusiamo e gioia dell’infanzia. Pensando alla filmografia di Wim, ci viene spontanea una possibile identificazione/corrispondenza di Salgado con il padre assente di Paris, Texas  o del fotografo/viaggiatore solitario di Alice nelle città: possiamo quindi definirlo “uno spirito connesso con i suoi lavori cinematografici”.

Ma arriviamo al nostro documentario:Il sale della terra” che parte subito con il mostrarci una lunga sequenza degli scatti di Sebastiao Salgado, da lui narrati: la storia dei progetti che lo hanno impegnato dagli anni ’70 a oggi si fonde così con la vicende personali e familiari. Tutte le fotografie, rigorosamente in bianco e nero, sono permeate da un rigido contrasto in grado di far risaltare al meglio non solo i ritratti dei “dimenticati” dalla società ma anche quelli dei  brutali conflitti e catastrofi creati dalla mano dell’uomo negli ultimi 40 anni. Kuwait, Rwanda, Jugoslavia, Sud America... Salgado non da voce solamente alla condizione umana immortalata ma anche agli scenari della natura che plasmano l’esistenza delle piante e animali che li abitano: è come se avvertissimo tutta la storia del mondo nel suo sguardo, arrivando ad emozionarci nel profondo, in modo del tutto spontaneo. Come succede ogni mattina a Wim, nel guardare la foto della donna Tuareg cieca appesa davanti alla scrivania e che gli ha fatto scoprire “per caso” il fotografo (era un giorno dell’87 quando entrò in una galleria di Los Angeles, incuriosito dagli scatti esposti in vetrina) per lui è impossibile non commuoversi nel guardarla. Salgado diventa inevitabilmente il suo fotografo preferito e “nel corso del tempo sente di volerlo incontrare e farci quattro chiacchere: così nel 2009 si fa presentare da un gallerista/comune amico. Per il regista è uno degli onori più grandi poterlo finalmente conoscere ma l’idea di realizzare un documentario su di lui/insieme si svilupperà in seguito. Durante quell’estate cenano spesso insieme e sarà presente anche il figlio di Sebastiao: Juliano. Wim sa che Salgado-padre non è solamente un grande fotografo ma anche un viaggiatore e che ha quindi molto da dire e raccontare riguardo al mondo e alle proprie esperienze fatte in prima persona.

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Il lavoro in miniera ci illustra la storia dell’umanità: come in un dipinto dell’olandese Hyeronymus Bosch, rieccheggiano voci nell’alba dei tempi. La pietra e le scale: chi si ferma è perduto e può solamente precipitare. Per coloro che trovano l’oro nei sacchi trasportati sulle spalle il rischio è maggiore: ne diventano schiavi e tornare indietro è impossibile. Gli esseri umani sono granelli di sabbia, siamo il sale della terra.

Uno sguardo alle origini

Nel ’69, la moglie di Salgado, Lelia è in Francia e sta studiando architettura, un giorno compra una macchina fotografica che le serve per una ricerca. Salgado ne è incuriosito e la prova subito: il  primo scatto sarà di lei, seduta alla finestra dell’appartamento. In seguito, Sebastiao, decide di lasciare il posto sicuro alla World Bank in cui lavorava e di investire tutti i risparmi in attrezzature fotografiche: è disposto a tutto (a suo rischio e pericolo) anche a partire da zero pur di inseguire  la passione della sua vita e farne magari una professione. La laurea in economia si rivelerà molto utile per capire con funziona il mondo e analizzare al meglio la situazione socio-economica dei paesi in cui ha intenzione di andare: un esempio di come ogni nostra evoluzione sia una continuità con ciò che abbiamo appreso e siamo stati. Wim comprende la scelta di Salgado perché anche lui ha lasciato una carriera avviata ma che probabilmente gli andava stretta: non termina gli studi di medicina e chirurgia e si traferisce a Parigi dove diventa apprendista-pittore, ma è durante le ore trascorse alla Cinématèque Française che si rende conto della strada da percorrere nella vita: fare cinema, come evoluzione naturale della pittura.

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Il lavoro dell’uomo e del fotografo nell’archeologia dell’era industriale

Workers 1986-1991: la mano dell’uomo è empatia verso la condizione di lavoro condivisa. Le esplosioni delle pozze di petrolio h24 nel Kuwait saranno la causa della parziale sordità di Salgado.

Radici. Universali.

Popoli dell’Africa come quelli del Sud America, passando per il medio Oriente e l’Europa dell’Est: il loro linguaggio comune è nel mantenere una certa idea di purezza verso la terra come è sempre stata, ma non lo sanno ed è per questo che ne fanno parte in modo totale. Al di fuori ci sono molti altri che provano a cambiare questo stato originale delle cose, non facendo che distruggere costantemente tutta la bellezza con cui il pianeta ci avvolge: sono incapaci di vederla, nella consapevolezza dell’indifferenza.

“L’esotismo non mi interessa, perché è figlio di una cultura che parla del bello in modo ipocrita o retorico. Quella terra, piuttosto, si prestava a un’idea sufficientemente mitica del tempo circolare. Quel qualcosa che noi conosciamo come il ciclo dell’eterno ritorno.” (Bruce Chatwin, La nostalgia dello spazio, Bompiani)

Salgado non è mai stato un fotografo/viaggiatore qualunque. I suoi viaggi, che lo hanno tenuto lontano da moglie e figli per anni, non lo portano allo stato di turista ma lo fanno essere parte integrante di coloro che vivono nei villaggi sperduti, dei gruppi delle tribù, delle anime dimenticate dai governi. È in Sud America, quando si reca dal 1977 al 1984 per realizzare il progetto “Otras Americas” e che lo porterà ad abitare per un lungo periodo in Equador, assieme al popolo indigeno dei Salaguros, condividendone attivamente tradizioni e quotidianità. Visi fatalisti che non solo gli offrono il ritratto di un ritmo di vita tutto loro, ma gli fanno anche il prezioso dono del respiro immobile del tempo. Le loro mani si nutrono di musica e sembra non abbiano bisogno d’altro, si arrampicano quasi su quelle salite impossibili per raggiungere le abitazioni in pietra, le ombre degli alberi calpestate dai piedi polverosi sprigionano i chiaroscuri che Salgado coglie, per incastonarli per sempre in una clessidra di luce. I Salaguros vivono con semplicità assieme ai miti  dei loro antenati: sono convinti che il fotografo brasiliano sia una divinità mandata tra loro per spiarli, per riferire in seguito il loro comportamento e proteggerli. Sfioriamo un’aurea di sacralità primitiva nei loro canti antichi in Quechua mentre suonano la Kipa. La loro via è nel canto, come è sempre stata, perché è in questo modo che l’uomo ha iniziato ad esprimersi all’altro, per stabilire/ oltrepassare i confini. Cantare è esistere, scrive il poeta Rilke ed è qui il senso dell’esistenza: nelle scie delle parole dei nostri avi, come orme d’eternità. Il nostro compito è quello di ritrovarle e  percorrerle, riscoprendo quel che abbiamo dimenticato, in modo puro privo di illusioni. Il bisogno di camminare, vedere, raccontare spinge lo scrittore come il fotografo a vagabondare, perdersi, fondersi in quei luoghi e in quei popoli: “L’uomo non è forse nato per questo?” si domandava lo scrittore/viaggiatore Bruce Chatwin. Il nomade non vaga senza meta da luogo a luogo: l’origine del suo nome è nel verbo “pascolare”, nel seguire le stesse vie di migrazione dei popoli prima di noi. Si seguono volontà precise: come il nomade non costruisce una casa, il fotografo disegna il mondo con la luce: uomini che tracciano il percorso delle proprie esistenze, nella nostalgia dello spazio.

SALAGUROS SALGADO

Ritrarre il suono della terra attraverso una civiltà arcaica basata su rituali simbolici

“In fondo, tutti quelli che finivano lì erano in qualche modo colpiti dal destino. Da una necessità segreta e misteriosa. Magari non sai il perché ma è il posto ideale per voler tornare a riscoprire il mondo.” (Bruce Chatwin, La nostalgia dello spazio, Bompiani)

Ritornare

Dopo 10 anni lontano dalla propria terra, Salgado e Lelia fanno ritorno in Brasile, assieme ai due figli. Seduti sull’aereo, lei si gira con l’emozione negli occhi verso la strada di casa. Ma per Salgado “L’Exodus” continua: sono gli anni dei progetti sulle grandi migrazioni dell’umanità: il Sud America in cui vita e morte danzano silenziosamente nelle ore dei giorni come riflessi capovolti negli occhi dei bambini non battezzati ma che rimarranno eternamente aperti per non perdersi; il mal d’Africa che lo richiama costantemente a questa terra e ai suoi popoli da Salgado così visceralmente amati. Esiste una parola in sanscrito per indicare allo stesso tempo sia il giocatore di scacchi e il pellegrino: “colui che raggiunge la sponda opposta”.

Con il Sahel, non è solamente “La fine della strada”, come il titolo del lavoro che gli dedica, ma la fine di un qualcosa di immenso incapace di esprimersi a parole e che ci viene mostrato negli scatti  d’aridità, delle frontiere, della disarmante disonestà politica, della ferocia umana. Le esperienze delle guerre, malattie, governi consapevoli di non voler aiutare un’umanità intera che soffre è straziante, un urlo disperato senza tregua: sono scatti dolorosi e l’anima di Salgado ne è lacerata. Ha visto e sentito tutta una realtà che gli fa mettere in discussione sé stesso e il suo mestiere. Nelle distruzioni e privazioni continue non riesce più a orientarsi, a ricordare perché sopravvivere quando tutto intorno muore: sente quindi che distanziarsene è necessario, vuole solamente riposare.

La forza, come una scossa per riportare in vita, viene dal nulla: in mezzo alla foresta c’è chi è sopravvissuto e si improvvisa parrucchiere per sistemare i capelli all’amico, chi cerca monete da cambiare anche se  nessuno le userà. Riappropriarsi di un ordine quotidiano quando tutto intorno è caos. Guardare verso un orizzonte, che c’è anche se lontano, come nella foto del ragazzino di spalle, fermo, di niente vestito, determinato verso un futuro da costruire con le proprie mani: ma una nebbia avvolge il cuore di tenebra di Salgado, ritorna a casa con l’anima malata.

“Sono convinto che l’uomo è la somma delle sue cose, anche se alcuni fortunati sono la somma di un’assenza di cose.” (Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi)

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“L’uomo in origine non possiede nulla” (Maestro Zen Sen Sotan). “Wabi” in giapponese significa “povertà”, ma nell’arte rappresenta la vera bellezza.

“Dalla mia terra alla terra”: Salgado scrive una lettera d’amore al pianeta

Lelia adesso lo prende per mano, accompagnandolo pianteranno insieme la foresta pluviale di quando era bambino, che non esiste più. È nel 1998 quando trasformano  l’ex fazenda della famiglia Salgado in un’organizzazione no-profit volta alla ri-forestazione della mata atlantica: L’Instituto Terra. La salvezza è nel microcosmo: come queste piantine crescono lentamente, così Salgado guarisce poco a poco, senza fretta: hanno tutta l’eternità davanti. Se la natura non lo avesse richiamato al paradiso perduto dell’infanzia non sarebbe sopravvissuto come uomo e fotografo. Wim sa quanto tutto questo è stato ed è importante per l’amico Sebastiao: vuole visitare l’Instituto Terra, vedere l’equilibrio di questo piccolo mondo in cui animali, piante e uomini sono posti sullo stesso piano, senza distinzione alcuna. Tutto si rispecchia nella Genesi di Salgado: in un lavoro nuovo e diverso al tempo stesso: un progetto ambientale che ha portato il fotografo brasiliano ad esplorare i cinque continenti tra il 2004-2013. La meravigliosa mostra che si è da poco conclusa al Palazzo Ducale di Genova è un percorso che il visitatore percorre nelle stanze/tra le distese infinite del nord america, le scogliere a picco sull’oceano erose dal vento di ere lontane, squarci di nuvole sulla superficie dei laghi, isole di foreste che sembrano sospese sulla superficie, aurore boreali e dune nel deserto: gli unici scenari per gli animali e le tribù che li attraversano. Salgado ha scritto con la luce la nostalgia del nostro paradiso perduto, per mostrarci che è possible fermare la distruzione della terra e riappropriarci così del segreto di felicità. Inevitabile il ritorno, come a ogni fine di un viaggio, rinnovarsi dalle proprie radici. Gli alberi piantati con Lelia sono diventati alti, Salgado accarezza alcuni rami: gli ricordano i capelli della madre. È a casa: sa che questo è il luogo dove tutto è nato e finirà. Lelia ha sempre preferito rimanere nel “backstage”: organizza i viaggi del marito, gli itinerari e tutte le  ricerche di cui ha bisogno durante i lunghi periodi all’estero, rimane a casa a crescere due figli e ad aspettare il ritorno del marito. Inoltre contatta gli editori, cura books fotografici e le mostre dei suoi progetti. Nonostante la sua presenza “silenziosa” è per Salgado il punto fermo della/nella propria vita e arte: senza di lei non si sarebbe mai avvicinato alla fotografia e non ne sarebbe mai stato salvato.

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“Il ritorno offre una pienezza di senso che l’andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza.” (Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi)

La soggettiva di Salgado: focalizzarsi sul soggetto necessita di un occhio che ne stia al di fuori, catturandone i dettagli centrali da prospettive diverse. Sono fotografie piene d’empatia per un’umanità dimenticata dai più. Angolazioni da oltre cento nazioni come orizzonti perduti: è come se questi scatti volessero riempire il nucleo narrativo del mondo, restituendo un’entità morale, rispetto e dignità a coloro che ne sono stati privati e rendendo immortale ciò che di sacro c’è nella natura e che molto spesso non riusciamo a percepire. Wim vuole che sia questo il messaggio del documentario incentrato sul lavoro e la vita del fotografo brasiliano: celebrare non solo l’immagine/foto in sé ma chi la crea. Wim ha una certa “fretta” di voler condividere nei documentari qualcosa che ama (ricordiamo l’omaggio al regista giapponese Yasujiro Ozu in Tokyo-Ga, la danza contemporanea in Pina, la musica in Buena Vista Social Club).

Realizzare un progetto insieme

Inizia la creazione del documentario: Wim va a trovare Salgado a Parigi e quelle che seguono sono settimane di interviste: si siedono al tavolo e sfogliano foto libro per libro, parlano delle tante altre attaccate ai muri. Domande e risposte davanti a due o tre telecamere che mettono a disagio il fotografo, non facendogli raccontare “la sua storia” in modo spontaneo come vorrebbe il regista. Wim allora “inventa” per lui una “darkroom” alternativa: Salgado si ritrova circondato dal buio e vede solamente gli scatti proiettati su di uno schermo semi-trasparente che ha di fronte. Può concentrarsi al meglio ed essere presente nel ricordo, creando una relazione vicina e viscerale che unisce il racconto delle foto con lo spettatore. Questo schermo particolare è il teleprompter:  utilizzato dai presentatori al Tg con cui possono contemporaneamente leggere il testo che scorre sopra e guardare nell’obiettivo. Per Wim non importa aver fatto un “doppio lavoro” perché è riuscito ad avere ciò che voleva: un’esperienza unica ed intensa. Per il figlio di Salgado, Juliano (aiuto regista per il documentario) non si è trattato solamente di un ri-scoprire suo padre ma anche le proprie origini: recandosi in Brasile ha infatti ripreso la famiglia Salgado al completo, nonni inclusi, in una continua relazione che lega il proprio sangue alla terra. Inoltre Juliano “smezza” il lavoro di montaggio con Wim (pensando fossero necessari quattro mesi per fare editing, ovviamente Wim gli da del “pazzo”: ci impiegheranno un anno e mezzo). Partono ognuno per conto proprio, nel tagliare e sistemare il materiale che hanno a disposizione, poi anche con quello dell’altro perchè si accorgono ben presto di voler avere una visione del tutto il meno limitata possibile. Non è sempre facile collaborare, scegliere cosa tenere ed eliminare mettendo d’accordo entrambi, ma alla fine realizzano che la fusione delle riprese dei due registi in un unico film è qualcosa di più grande del lavoro fatto separatamente. Salgado-padre dopo aver visto per la prima volta il documentario  (una settimana prima della fine del montaggio, su una versione-copia sul pc) da l’ok a Wim, sollevandolo. Il fotogrago lo vedrà una seconda volta, a documentario ultimato, durante la presentazione al Film Festival di Rio de Janeiro: subito dopo telefonerà al regista tedesco che non è potuto andare, dicendogli di essersi commosso durante la proiezione e che adesso capisce  perché abbia dovuto aspettare così tanto per vederlo! Wim è grato a Salgado perché gli ha mostrato quanto si sia dedicato alla sua professione di fotografo partendo da zero. Ne ha un’immensa stima come persona e pensa che Sebastiao stesso non si consideri un artista o fotografo ma un outsider: infatti come gli aveva spiegato, nell’arte della fotografia da lui creata non è la personale visione a interessargli bensì i soggetti. Non si preoccupa di come verrà lo scatto, se sarà bello o meno: quello che conta è la realtà, la verità della situazione, del momento e il rispetto verso chi o cosa fotografa.

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“Ferire la terra è ferire se stesso. Deve rimanere intatta, com’era al tempo del sogno, quando gli antenati col loro canto creavano il mondo … Era la terra che dava la vita all’uomo, gli dava il nutrimento, il linguaggio e l’intelligenza e quando lui moriva se lo riprendeva.” (Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi)

Mariangela Martelli