Venezia73: Les beaux jours d’Aranjuez e l’estasi del tempo statico

Venezia73: Les beaux jours d’Aranjuez e l’estasi del tempo statico

September 3, 2016 0 By Elisabetta Da Tofori
lebeauxjoursLa seconda giornata della  Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si apre con la nuova pellicola di Wim Wenders: Les beaux jours d’Aranjuez, un riadattamento della pièce teatrale dell’amico e collaboratore austriaco Peter Handke (i due si sono ritrovati  in questo progetto dopo diversi anni da Il cielo sopra Berlino e La paura del portiere prima del calcio di rigore).
Jens Harzer è lo scrittore davanti alla macchina da scrivere nel suo studio pieno di libri, ma con gli occhi oltre la porta aperta che dà sul giardino. Sarà all’ombra di un gazebo in una giornata di mezza estate che lo scrittore/creatore darà vita al dialogo tra i suoi due personaggi: l’uomo (Reda Kateb) farà delle domande alla donna (Sophie Semin) come da accordi.
L’estate  e’ piena di petali che palpitano in questo Eden lontano dal tempo, sullo sfondo dell’Ile de France. Intorno al tavolino, la donna da voce ai suoi ricordi dell’infanzia, agli incontri amorosi, ai paesaggi che la circondavano sempre, nel susseguirsi delle stagioni e degli anni. L’atmosfera che la avvolge sa di una vaga scoperta, fatta per caso. Il suo vedere al passato è nostalgico, ma senza rimorsi perché adesso è  in grado di vederlo con gioia e serenità.
Ma il tanto narrarsi non avvicina la natura maschile a quella femminile: i due rimarranno entro i propri confini senza oltrepassare il velo dell’incomunicabilità che fluttua a metà strada tra i due.
Le inquadrature degli oggetti lasciati sul tavolo (due bicchieri, una caraffa, una mela, un vaso di fiori) sono un dipinto, una natura morta. Lo spettatore avverte la bellezza del tutto ma sa che è un qualcosa che chiude i due capaci solamente di prendere senza dare l’un l’altro. Il tanto parlare ci ricorda ciò che abbiamo dimenticato: del senso di pienezza di due corpi che si riposano vicini, con i pensieri distesi e basta durante l’estate “balsamina”. Invece continuiamo a percepire un continuo divieto, un “noli mi tangere” nell’apice di Luglio. Lei sente di essere nell’era dell’inconsistenza, non sa cosa farà poi. La sua unica certezza è nella risposta alla domanda di  lui  se tutto questo sia finzione: è immaginazione.
Realtà e racconto si confondono: i personaggi e lo scrittore escono dalle proprie scene. L’uomo decide di rompere il fragile equilibrio basato sul linguaggio con l’azione: si alza per camminare  sul prato. Il tracciare cerchi invisibili non lo farà più tornare indietro: ecco l’inizio del silenzio assordante  piombato prepotentemente nel sogno da un mondo esterno, da una quotidianità lasciata al di fuori. Ciò che ne rimane è caos e solitudine in un giardino che si spegne, rischiarato solamente dalla luce verde del jukebox dentro casa. Dobbiamo guardare oltre l’eternità, alla realtà che ci circonda come fa la donna quando appoggia la testa sul tavolino (in una sorta di omaggio al gesto parallelo compiuto dalla bambina in Stalker di Tarkovskij, ma stavolta dando “le spalle al pubblico”). La visione d’Aranjuez  non ha niente di trascendentale perché si ferma alle cose per quello che sono: la tecnologia delle riprese in 3D ci riporta così alla verità. (Mariangela Martelli)
aranjuez

L’Eden, un uomo, una donna e una mela. Uno scenario essenziale, primordiale, un Dio creatore, un Adamo e un’Eva sono posti davanti agli occhi di uno spettatore che di fronte alla pièce teatrale messa in atto è portato a riflettere sulla miseria dell’esistenza umana. Uno scrittore di fronte alla macchina da scrivere è come Dio davanti alla propria creazione vivente, crea la vita a sua immagine e somiglianza e attraverso la trasposizione scritta mette a nudo il loro essere burattini nelle proprie mani divine. Una doppia proiezione, una reale: la miniatura di due sedie e un tavolo con su sopra una mela e l’altra riflessa, collocata al di là della scrivania dello scrittore, in uno spazio esterno, è qui che si concretizza la doppia messa in scena. La trasposizione letteraria di un’opera teatrale si riflette nella propria messa in scena distinguendo volutamente i due luoghi: la platea fatta dal regista e da tutti noi spettatori e lo spazio scenico, la terrazza immersa nel verde dove gli attori mettano in scena un dramma in tre atti. La macchina da presa con dei lenti carrelli avanza e retrocede, entrando così ed uscendo dalla narrazione in modo tale da indirizzare lo sguardo voyeuristico di tutti noi. Silenziosamente assistiamo ad un dialogo tra un uomo e una donna, un rimbalzo di battute fatto di domande chiare e concise e di risposte astratte ed evanescenti, distinguendo così i caratteri dei due. Le finestre sulla terrazza, invece, delimitano gli interni dell’abitazione dall’esterno, sono aperte ad infinite possibilità così come recitava Renoir, creando, in questo modo, uno spazio meta teatrale. Per un istante i due personaggi restano senza parole poiché privati dal loro creatore; si alzano, in questo modo, e si dirigono verso la finestra come a reclamare la propria voce. È la chiara rottura della quarta parete, mostrando definitivamente allo spettatore la finzione scenica. È un ballo a due accompagnato dalla danza sublime della macchina da presa attorno al tavolo della conversazione, dove ruota armoniosamente accompagnato dal delicato fruscio del vento che soffia su questo luogo idilliaco e bucolico.

Altro elemento essenziale all’interno della rappresentazione sono i colori che assumono un’importanza e un significato profondo; i due attori vestono con abiti rossi, giallo e blu, i tre colori primari per eccellenza dai quali ha origine tutto lo spettro vivibile; da qui ci riallacciamo al concetto di principio, origine, inizio, segnato dal quel morso alla mela messo in atto dallo scrittore.
Così, i tre atti della piece teatrale si distinguono per i cambi di colore d’abiti della nostra Eva: abito rosso con un foulard giallo del primo atto, blu nel secondo e arancio nel terzo (effetto visivo prodotto dalla sovrapposizione dei due indumenti della donna), ciò ad evidenziare la volubilità dell’animo femminile. Al contrario la figura maschile resta statico, immutabile nel suo completo blu per tutta la durata del film. (Elisabetta Da Tofori)
Elisabetta Da Tofori
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