Venezia73: Une Vie, la realtà vista di profilo

Venezia73: Une Vie, la realtà vista di profilo

September 10, 2016 0 By Mariangela Martelli
img_4250Normandia 1819, Jeanne le Perthuis des Vauds (Judith Chemla) ritorna alla casa dei suoi dopo gli anni del collegio/convento per sposarsi quasi subito con un nobile decaduto: il visconte Julian De Lamare (Swann Arlaud), il quale dopo un primo momento idilliaco con lei si rivelerà per ciò che è realmente: un uomo autoritario e bugiardo che non eviterà di “compromettere” la cameriera al loro servizio.
Il regista francese Stéphane Brizé nella pellicola presentata a Venezia 73 Une Vie, dipinge l’esistenza della protagonista Jeanne dai suoi venti a quarantasette anni.
Ciò che emerge  in modo spontaneo e cristallino attraverso i tableux in sequenza è il ritratto dello spirito puro e dello sguardo incontaminato di una giovane donna radicalmente attaccata al proprio paradiso d’infanzia mai perduto che la fa essere una creatura rara e preziosa, dal pensiero sincero. Guarda tutto ciò che la circonda (paesaggi e rapporti umani compresi) con tutta la sincerità e stupore del proprio “stato di natura”.
Il passaggio che l’accompagnerà verso il mondo adulto iniziato con il matrimonio, si evolve rapidamente in una contaminazione di menzogne e sotterfugi da parte del marito (e non solo), che estirperanno in lei la fragile corazza che non sarà più in grado di proteggerla dai rapporti umani, dalla brutalità delle scelte, dalla violenza delle parole. Intersecarsi con la  verità la farà sopravvivere in un fragile equilibrio che la costringe ad  aggrapparsi alla memoria del passato: un paradosso che il regista stesso definisce “bello e drammatico al tempo stesso”.
Jeanne continua ad essere la custode del proprio fuoco, nonostante la brusca metamorfosi avvenuta non appena entrata in contatto con l’ambiente a lei esterno/estraneo: conoscere la verità sarà la sua condanna, esprimerla a gesti o a parole la sua prigione.
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In Une Vie, Brizé rielabora il primo romanzo omonimo di Guy de Maupassant, in cui le atmosfere di instabilità politica post Ancien Régime sono un riflesso nell’animo malinconico dei personaggi. Lo spunto di realizzare un progetto cinematografico partendo da un libro era già avvenuto nella pellicola Mademoiselle Chambon, ma la differenza di adesso, rispetto alla carta, sta nel punto di vista di Jeanne che si esprime attraverso il dialogo interiore, ricordi e flussi di coscienza alternati dalle riprese in esterno che la vedono immersa in una realtà bucolica condivisa con gli “uomini della sua vita” (nell’orto o nel bosco con il padre, quando passeggia con il marito lungo la scogliera, mentre gioca con il figlio sulla spiaggia) alle altre in interno nel proprio ambiente domestico o a contatto con le istituzioni  (nella casa dei suoi o del marito, in chiesa o al collegio del figlio).
La sovrapposizione dei piani temporali si confonde tra i ricordi della storia personale e il lento scorrere delle stagioni. L’approccio “classico” per rimanere fedele al romanzo viene superato dalla tecnica che mette insieme flashback e flashforward rendendo così  la narrazione dinamica e allo stesso tempo filtrata attraverso la luce che rischiara il presente nel passato e viceversa. La mente di Jeanne trova un proprio spazio in tutto questo, compiendo salti non lineari ma che inevitabilmente faranno ritornare ogni cosa allo stesso luogo, in un’eco di pensieri che vagano sulle note barocche della colonna sonora, nel clavicembalo suonato da Olivier Baumont. Il tempo e’ sospeso per pochi attimi, fuggendo dalla drammaticità degli eventi per rifugiarsi nella poesia di un sogno.
Le riprese del film  hanno richiesto molto lavoro: le prime cinque settimane sono state dedicate solamente alle scene con gli attori, in gesti e azioni senza dialoghi. Brizé ha espresso la sua intenzione di quei giorni nel modo di dire francese “Vedere l’insalata che cresce”, un po’ come farà Jeanne nel prendersi cura del  suo orticello. Une Vie è nutrito con materia visiva, tangibile sulla pelle degli attori nel desiderio di continuità tra scrittura e montaggio. In ogni istante emerge la ricerca di un dialogo permanente, l’intuizione senza mostrare in modo violento la realtà dei personaggi, facendoli coabitare in un linguaggio narrativo che cresce nel germoglio, nel raccolto, nello sbocciare di Jeanne, nel suo amore da dare alle persone da cui dipende. Lei crede nella natura che impariamo ad esplorare, abbandonandoci nel suo sguardo: il regista sembra dimenticare  la tecnica andando oltre le cose, mentre l’aria dell’ambiente circostante cambia.
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Une Vie è totalmente incentrato sulla fisicità della protagonista, sul suo istinto e spazio attraverso l’istante. Il padre di lei, il barone cerca di preservare questo dolce torpore dell’amata figlia, prendendo egli stesso le distanze  dai cliché dell’epoca in cui vive e della rigida educazione familiare perché crede nell’opera dell’uomo: la sua mente è imbevuta dell’ideale della rivoluzione, i dubbi sul non essere cattolico lo portano a un sottile mal de vivre, proiettato verso la ricerca di una vita moderna. Un sentire antico che si avvicina a quello di oggi: ai  genitori che fanno di tutto per proteggere i figli, non riuscendo sempre  a dotarli di strumenti per affrontare il futuro che desiderano per loro. La madre si rifugia nelle lettere antiche, rievocando le emozioni perdute. Entrambi i genitori sono gentili e con la testa tra le nuvole, semplici ma il loro interessarsi a come si senta la figlia quando si appresta a sposarsi  è un aspetto raro nelle famiglie ottocentesche. Un legame indissolubile che li unisce e che attraversa l’epoca storica vertiginosa  mentre lo spettatore respira una certa aria documentaristica, di vero realismo poetico.
La fotografia  di Antoine Héberlé cattura la  luce naturale, con delicata leggerezza che si proietta sulla figura elegante e profonda di Jeanne, nei suoi silenzi e nella solitudine degli anni trascorsi, nelle sfumature di momenti di perfezione che si appannano, nelle connessioni tra i personaggi che non coincidono più. Il senso della disillusione è tangibile man a mano che si prosegue nello scorrere dei tableaux di lei: un’immagine che vediamo quasi sempre di profilo, nuda da ogni maschera, orientata sempre verso l’essenza della realtà, dal suo manifestarsi al comprenderla, perché come dirà: “la vita non è né bella né brutta come si crede”.
C’e qualcosa di estremamente emotivo nella scelta stilistica del formato a 4/3, che scava la superficie impolverata solo all’apparenza, racchiudendo la protagonista nella scatola del proprio linguaggio per interpretare il mondo. La osserviamo come in un dipinto fiammingo, vera intuizione per ascoltare ciò che sente dentro, anche se non sempre siamo nel posto giusto dove possiamo vedere tutto. Fondamentale per il regista è il riuscire a trasmettere ciò che non viene detto o mostrato, ricomponendo come in un collage, una realtà fatta di mezze verità. Jeanne è sempre presente, le scene non conoscono la sua assenza perché gli altri personaggi non esistono al di fuori della cornice del suo sguardo.
Mariangela Martelli