
Un borghese piccolo piccolo, l’orrore secondo Monicelli
September 22, 2016Un borghese piccolo piccolo, regia di Mario Monicelli. Dietro ogni commedia si nasconde il dramma, e nel caso della commedia all’italiana si parla di drammi travestiti da sorrisetti amari e isterici. L’idea della risata come catarsi (ossia il suo valore apotropaico, così radicato nella cultura ellenica) vorrebbe mantenere una forma di ottimismo, di speranza in una redenzione dell’uomo. La nostra commedia ha saputo ridicolizzare gli italiani, nel tentativo di emanciparli da una condizione di vizio ed ipocrisia sociale. In altre parole, ha illustrato il passaggio da una grande borghesia (dotta, in grado di guidare il popolo, quella tanto agognata con nostalgia da Ettore Scola) ad una borghesia piccola, insulsa, viscida, accentrata sul personalismo e l’ossequio come estrinsecazione di avidità.
In altre parole ancora, la maschera tragica costruita da Sordi, non solo nel film in questione ma nella gran parte delle sue interpretazioni, è l’esempio perfetto del piccolo borghese: nessuno più di Sordi riusciva ad incarnare nel suo faccione quell’esistenzialismo un po’ servile e mellifluo, un dramma che acquisiva caratteri comici nell’impaccio e nella smorfia dell’inettitudine (già nell’immagine di locandina Sordi abbozza un inchino, che sembra il manifesto di un intero ceto sociale).
Un borghese piccolo piccolo si muove su una cornice all’apparenza binaria: l’opera segue le orme della commedia, a tratti grottesca, più spesso agrodolce, con la colonna musicale e il montaggio che suggeriscono l’impianto d’ilarità buffonesca. Sordi è Giovanni Vivaldi, umile impiegato ministeriale prossimo alla pensione, che non ha mai fatto carriera, relegato nei bassi fondi di un archivio, ingenuamente fiero del suo lavoro trentennale presso il Ministero millantando amicizie inesistenti coi potenti. Un personaggio immortale, iconico, che prende forma dalle pagine del romanzo di Vincenzo Cerami, e diviene simbolo dell’italiano piccolo borghese all’interno di una cornice descrittiva che si attiene ai dettami della commedia all’italiana e denuncia certe deformità sociali a cui tanto siamo avvezzi e che, volenti o nolenti, ci caratterizzano.
Vivaldi investe tutte le sue energie per assicurare un futuro nella pubblica amministrazione al figlio Mario (Vincenzo Crocitti), diplomato in ragioneria, ma decisamente poco acuto. Il padre mostra un orgoglio commovente nei confronti del figlio, ed è disposto a tutto per fargli superare il concorso d’ammissione, muovendosi nel grande teatro clientelare delle raccomandazioni, del servilismo verso i potenti, accentuando i toni grotteschi della vita d’ufficio e dei dissidi familiari, fino alla messa in scena delle dinamiche d’ingresso in una loggia massonica (la vera stangata di comicità, una parentesi di genio nell’opera) e della vita spirituale vissuta con superstizione e ingenuità, mantenendo sempre una fiducia totale per lo Stato (alla fine non è un panorama tanto estraneo, tralasciando la massoneria: se non ci fosse la crisi economica ad averci consegnato un mondo che, scusate l’ironia, si regge sul precariato, staremmo ancora a ritagliarci, e alcuni comunque lo fanno, il quadratino piccolo borghese del mutuo, la parabola del posto fisso, la macchina, il lavoro, i figli e le partite di calcio la domenica).
Succede che il giorno del concorso, preparati ad assistere al siparietto tragicomico dell’ennesimo cretinotto raccomandato che frega tutti sul lavoro (e avremmo continuato a ridere, ridere di quanto sia miserabile Sordi, e come ogni volta non avremmo capito che stavamo ridendo di noi stessi), Mario viene ucciso nel corso di una rapina. Lo sguardo di Monicelli, attento alle dinamiche sociali, si amplia gradatamente, assimilando anche la dimensione politica degli Anni di Piombo, lavorando per sottrazione fino a giungere al cuore dell’instabilità di una politica corrotta come foriera delle tensioni sociali partorite in quel periodo (ed ecco che il Monicelli politico si fa largo assieme a Elio Petri e Francesco Rosi per lavorare su una denuncia particolarmente aspra e accomunata da un inguaribile pessimismo).
Con questo evento, Monicelli sembra abbandonare il binario della commedia, un po’ emblematicamente in accordo col declino dell’intero filone cinematografico, e la pellicola sprofonda in una dimensione di cupezza che prima disarma, poi stordisce, poi sconvolge, accelerando il corso delle cose in maniera roboante, col viso di Sordi che muta, lombrosianamente, in una maschera di lucida follia, con lo sguardo paralizzato in una morsa di ferocia vendicativa. Si perde ogni speranza, ogni colore diviene fosco, la città si tinge di grigio e una pioggia costante accompagna gli eventi. L’atmosfera scivola lentamente in un dramma claustrofobico, la melodia composta da Giancarlo Chiaramello abbandona la tristezza malinconica che aveva suggellato gli attimi commoventi della prima metà dell’opera, per trasformarsi in un’alchimica di percussioni violente, adrenaliniche, cariche di un’ansia che prelude alla tragedia.

Disegno per le scenografie della casa della famiglia Vivaldi. A cura di Lorenzo Baraldi.
Significativa la sequenza dell’inseguimento dell’assassino da parte di Vivaldi, che dapprima, dinanzi alla polizia, finge di non riconoscerlo, per poter attuare in seguito la sua personale vendetta (o farsi giustiziere, non più in grado di accettare la giustizia dello Stato, vissuta come non sufficientemente punitiva in relazione al crimine: è questo clima di sfiducia per lo Stato il nucleo pessimistico dell’opera, rappresentazione fedele di una società che ha smarrito la bussola del buon senso e del sistema dei valori divenuti ipocrisia): in questa sequenza compare un piano medio del volto di Sordi dietro il parabrezza, con la pioggia scosciante, mentre osserva l’assassino. Inquieta fino a terrorizzare. In quello sguardo si frantuma la rete di perbenismo su cui faticosamente il piccolo borghese ha mantenuto un decoro sociale e appreso le buone maniere per sopravvivere. Lo Stato indifferente e una società egoista hanno slegato l’animale tenuto quiescente, l’hanno costretto a rinnegare la legge e godere del soddisfacimento degli impulsi. Più che un caso isolato, Vivaldi sembra essere la manifestazione della malattia dell’intera Nazione.
Quello sguardo è la quintessenza dell’orrore. Dopo l’assuefazione ad un orrore cinematografico lontano dalla nostra realtà (tra sangue, diavoli, fantasmi, scricchiolii, teste mozzate, il buio, tutte cose che non ci spaventano più, tranne forse i film di Fulci, ma si parla appunto di Fulci), quello sguardo rappresenta un orrore che supera le soglie della paura e può divenire panico (per usare le parole di Dario Argento). E che non può non continuare a terrorizzarci, perché se spingi un uomo con le spalle al muro, e lo fai con una violenza perpetuata nel tempo, e gli imponi una frustrazione e un dolore al di sopra delle sue capacità di sopportazione, quell’uomo si scorda del conformismo, del decoro, dell’ossequio, della legge, poiché tutto si disgrega dinanzi allo scoppio di pulsioni represse. Il progresso viene irreversibilmente bloccato, e la coscienza civile zittita per sempre.
Vivaldi, lucidissimo, accudisce la moglie catatonica dopo il trauma per la morte del figlio, continua il suo lavoro, poi prende un crick e colpisce alla testa l’assassino, lo rapisce, lo colpisce ancora, lo lega mani e piedi e collo in una baracca sperduta che usava come rifugio quando andava a pesca col figlio, poi torna a lavoro, si lava i denti con sguardo spiritato mentre racconta alla moglie di come abbia scoperto questa violenza addormentata (?) dentro di sé, compra da mangiare, torna al rifugio, dà altre botte in testa all’assassino, lo osserva agonizzare mentre mangia e sbriga le mansioni di lavoro. La macchina da presa, infine, è fissa per diversi secondi, lunghi un’eternità, in un’inquadratura spietata che mette in scena il ragazzo legato che ansima ad un’estremità, e Vivaldi che mangia con calma alle sue spalle, assaporando la vendetta.
La crudeltà di Vivaldi riporta la riflessione di Monicelli, d’un tratto animato dal sadismo, ad un piano antropologico, in quanto esito dell’ostilità dell’ambiente che estrapola la bestialità dall’uomo. La regia e il missaggio sonoro lavorano per ricostruire, su un piano allegorico, una ferocia che rievoca l’antico legame tra uomo e Natura: il film si apre con la pesca di un luccio particolarmente vivace che viene zittito a suon di botte di pietra in testa; mentre l’assassino sta per spirare legato al palo, una mosca ronza ad un missaggio improvvisamente elevato sbattendo ripetutamente contro una finestra fino a morire.

Disegno per le scenografie della baracca del rapimento. A cura di Lorenzo Baraldi.
In questo panorama, in cui si riafferma l’emergenza della crudeltà della Natura, non c’è spazio per la religione, che già subiva l’onda dispregiativa dell’anticlericalismo di Monicelli, e le uniche sequenze in cui v’è parvenza di Dio sono autoritarie, distaccate, algide: la scena del funerale della moglie di Vivaldi, nel finale, con un’omelia da far accapponare la pelle (e che racchiude il giudizio severo di Monicelli: “ed emetterei serenamente una sentenza irrevocabile di morte generale”); oppure la scena delle bare stipate una sull’altra in una stanza nel cimitero, in cui si consumano gli ultimi siparietti tragicomici dell’opera.
La radicalità di Un borghese piccolo piccolo si concentra nel finale, di cui è meglio non accennare nulla, che tuttavia appare paradigmatico nell’affermare il prosieguo della violenza e denunciare una forma di estinzione della civiltà, che si porta sottoterra i seppur effimeri schematismi del perbenismo borghese. Ci si dimentica della risata, eppure si era riso fino a tre quarti d’ora prima, e si accoglie con amarezza quest’uomo che ha dimenticato l’uomo (nessuno escluso da questo processo di de-umanizzazione, per Monicelli). Nel fermo immagine del finale, su cui scorrono i titoli di coda, ancora Sordi, animato da nuova vita, incarnazione di puro delirio, terrorizza ancora.
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