RomaFF11: La Caja Vacía e la metafora dell’assenza

RomaFF11: La Caja Vacía e la metafora dell’assenza

October 23, 2016 0 By Elisabetta Da Tofori

la-cajaDopo la presentazione al Toronto International Film Fest, prosegue il percorso de La Caja Vacía (The Empty Box corrispondente alla traduzione italiana “La Cassa Vuota”) all’interno dei circuiti festivalieri fino a inserirsi nella vetrina romana dei film presenti in concorso; proveniente dal profondo Messico, è l’opera seconda di una giovane regista, sceneggiatrice e in questo particolar caso anche attrice, Claudia Sainte-Luce.

Il film inizia con un’inquadratura simmetrica all’interno di un aeroporto, la macchina da presa è centrale rispetto al nastro trasportatore che in un istante viene attivato e sul quale iniziano a scorrere valigie; a poco a poco pure una cassa in legno, che fino a pochi istanti prima compariva di quinta, entra in movimento e su di essa è marchiato in vernice LA CAJA VACÍA. Nessun titolo di testa, nessuna colonna sonora apre il film, lasciando solo spazio ai rumori meccanici dei motori degli aerei, ai muletti in movimenti e ai vociare degli operai.

Il titolo è una bellissima metafora della profonda assenza che la protagonista vive interiormente: è la storia di una donna trentenne Jazmín (per l’appunto Claudia Sainte-Luce) che si ritrova a dover prendersi cura del padre Toussaint (Jimmy Jean-Louis, attore interprete che tra i tanti film lo abbiamo visto al fianco di Bruce Willis ne L’Ultima Alba del 2003 e in Joy di David O. Russell del 2015) malato di demenza vascolare. Il rapporto padre e figlia è problematico, tra i due non c’è alcun punto di contatto e ciò è rafforzato dalla difficoltà di dialogo, domande contenute e risposte stringate; Jazmín ha un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti Toussaint che non chiamerà mai papà in segno di rifiuto di qualsiasi rapporto parentale con lui, “Io non ho niente di tuo” in riferendosi ai tratti del volto.

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Il film ha una tinta generale piuttosto cupa, come un grigiore malinconico che esprime una solitudine interiore, così come la scelta registica di non inserire all’interno del film nessuna musica extradiegetica in modo da avvalorare e rafforzare questa estrema condizione di isolamento. Jazmín è sempre inseguita dalla macchina da presa durante la sua giornata e le immagini sono accompagnate dai suoni naturali dell’ambiente così da voler porre l’accento sulla costante mancanza della protagonista. Si sentono varie melodie ma entrambe hanno una funzione diegetica come i due brani musicali ascoltati al cellulare da padre e figlia. Solo nei titoli di coda viene inserito una colonna sonora in chiusura che accompagna lo sfogliare delle pagine del passaporto sul quale sono scritti i credits, escamotage grafico originale.

La Caja Vacía è ricco di flashback dissonanti che si amalgamano all’interno della narrazione talmente bene da non riuscire per un attimo a distinguere il presente dal passato; inoltre si differenziano due opposti punti di vista quelli della figlia e quelli del padre. Nella parte iniziale del film la donna ha degli sporadici ricordi dell’uomo appartenenti alla sua infanzia, dove vediamo la piccola e silenziosa Jazmín relazionarsi con il padre severo che la incita a “ser la mejor” (essere la migliore). Al contrario i flashback di Toussaint sono molto numerosi e frequenti, sono delle memorie confuse con la realtà, in un percorso a ritroso della sua vita che lo ritraggano negli ambienti lavorativi, all’interno di relazioni sentimentali fino a quelli della sua infanzia sull’isola haitiana: la comunione domenicale, la madre, la scuola. Da queste immagini emerge la figura di Toussaint immutata nel tempo e nello spazio; infatti, lo vediamo fisicamente adulto al fianco dei suoi compagni d’infanzia, sono così delineat i ricordi di un uomo anziano che fatica a differenziare i ricordi di esperienze del vissuto passato dalle attuali.

La Caja Vacía è una difficile e profondamente malinconica esperienza che lascia un immenso e profondo vuoto, assenza difficile da colmare.

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Elisabetta Da Tofori
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