
TFF34: Intervista al direttore della fotografia Ed Lachman su Herzog, Wenders e Antonioni
November 22, 2016Ed Lachman è uno dei più importanti direttori della fotografia viventi, su questo possiamo tutti essere d’accordo. Che il suo lavoro con Todd Haynes (da Far from Heaven a Carol, passando per I’m Not Here e Mildred Pierce e in trepidante attesa di Wonderstruck) gli abbia già assicurato un posto d’onore all’interno della storia del cinema è un altra certezza indubitabile. In occasione del TFF34, il Nostro è stato invitato nel capoluogo sabaudo per presiedere la giuria del festival. Vero Cinema ha avuto la fortuna, oltre che l’immenso piacere, di scambiare quattro chiacchiere con lui ad alcuni di quei progetti a cui ha lavorato decenni prima d’incontrare il regista di Carol e firmare uno dei sodalizi artistici hollywoodiani più interessanti degli ultimi anni. Perché Ed Lachman non ha lavorato solo, tra i tanti, con Todd Haynes, ma anche con due mostri sacri come Werner Herzog e Wim Wenders.
Ci puoi descrivere la tua esperienza come direttore della fotografia durante le riprese de “La Soufrière” di Werner Herzog?
Oh, è successo molti anni fa. Ho conosciuto Werner alla Berlinale quando ha presentato il suo primo lungometraggio, Signs of Life, che nel corso degli anni lui ha mostrato sempre di rado, ma credo sia uno dei film più belli che abbia fatto. Ci siamo incontrati e siamo diventati subito amici. Un giorno ho ricevuto una telefonata da lui, saranno state le cinque del mattino, e mi ha detto “Voglio fare questo film su questo gruppo di persone che sono a Guadalupe, in questa isola nel Mar dei Caraibi, dove ci sarà un’eruzione vulcanica più potente di una bomba atomica” e io gli ho risposto che andava bene. Dopo poco l’ho richiamato chiedendogli che tipo di pellicole dovevo portare perché era una cosa di cui mi occupavo io. Sono arrivato all’isola Guadalupe e non c’era traccia di Werner Herzog, ho pensato “è una cosa folle, sono qui ad aspettare questo regista tedesco, forse è scomparso qui a Guadalupe”. Due giorni dopo è arrivato insieme al suo direttore della fotografia tedesco, Jörg Schmidt-Reitwein, e così siamo andati alla ricerca di questo gruppo di persone. L’isola ha la forma di una farfalla e tutto un lato era stato evacuato e nel film viene detto che grazie a Dio quella catastrofe non si era verificata. Un giorno Werner mi ha fatto rimanere nella città mentre lui si sarebbe inoltrato su per l’isola per trovare una persona che era rimasta lì, allora gli ho chiesto cosa avrei dovuto fare se il vulcano avesse iniziato ad eruttare e lui mi ha risposto “Vai verso il mare, lì ci sarà una barca pronta a prenderti” e dopo se n’è andato. Mi son chiesto “Ma quale barca mi raccoglierà?”, ma lui ti dava sempre questo incredibile senso di fiducia perché lui non avrebbe mai messo nessuno in una situazione in cui lui si stesso non si sarebbe messo. Così mi sono messo a vagare per la città, ho fatto delle riprese all’interno dell’ospedale, in giro c’erano branchi di cani selvatici. Era tutto molto soprannaturale, come un film di fantascienza.
Prima di partire per Guadalupe sapevi già del pericolo in cui ti saresti messo o te ne sei reso conto solo una volta arrivato lì?
All’inizio avevo in mente solo quale pellicole vergini portare e che avrei fatto un film con Werner. Lui non ha guardato un solo metro di pellicola, lì ero solo quello che si occupava della fotografia del film. Dopo quella esperienza ho lavorato come direttore della fotografia nel suo Stroszek, poi in un altro documentario intitolato How Much Wood Would a Woodchuck Chuck e in Huie’s Sermon.
Hai lavorato anche alla pre-produzione di “Where the Green Ants Dream”, vero?
Sì, sono andato in Australia con Werner in questa città chiamata Coober Pedy, ma ci voleva troppo tempo prima che la produzione iniziasse a tutti gli effetti e a quel punto ho iniziato a lavorare ad un altro film.
Quando invece hai lavorato a “Tokyo-Ga” di Wim Wenders, tu e il regista avete deciso fin da subito che tipo di riprese avreste fatto per quel documentario o avete improvvisato giorno per giorno mentre eravate in Giappone?
È stato totalmente improvvisato. Ogni giorno andavamo in giro per girare delle inquadrature che ricordassero il cinema di Yasujiro Ozu perché ovviamente Tokyo-Ga era concepito fin da subito come un omaggio nei suoi confronti. Abbiamo intervistato Chishū Ryū, l’attore feticcio di Ozu, e il suo direttore della fotografia di fiducia, Yuharu Atsuta. Durante le riprese, c’era sempre quel senso di scoperta riguardante il Giappone, sia che fossero immagini ritrovate o perdute [rispetto ai film di Ozu, perché la capitale giapponese si è molto trasformata nel corso degli anni, NdR]. Per lungo tempo Tokyo-Ga è stato il mio film preferito tra quelli a cui avevo lavorato perché aveva in sé un carattere di purezza: eravamo Wim, io e un’interprete che ha fatto da liaison [tra loro e la lingua giapponese, NdR], lei è molto importante in quella terra perché la sua famiglia ha importato film occidentali in Giappone. Mentre eravamo lì siamo andati in quella compagnia che produceva cibi artificiali ed è stato come un momento di rivelazione, siamo andati in quel posto dove giocano a golf e così via. C’è voluto molto tempo per il montaggio perché non ci rendevamo conto di tutto il materiale che avevamo accumulato. Anche nei suoi film di finzione Wim gira, o almeno lo faceva ai tempi, come se volesse costituire un archivio d’immagini e Tokyo-Ga è un insieme di diverse immagini. Di sicuro nel film c’è un punto di vista molto occidentale nel modo di mostrare il Giappone.
In alcune interviste hai parlato dell’importanza che hanno avuto per te i film di Michelangelo Antonioni. In che modo il suo cinema ha influenzato il tuo lavoro di direttore della fotografia?
L’ha fatto molto. Mi ha influenzato fin dall’inizio, guardando film come L’Eclisse, La Notte, L’avventura. Antonioni ha cominciato a fare cinema quando era già avanti negli anni, ma la cosa incredibile è che lui creava immagini che erano importanti tanto quanto la storia che stava raccontando e che il linguaggio con cui si racconta una storia diventa esso stesso la storia. Questo è quello che abbiamo visto. Lavorando con Paul Schrader a Light Sleeper ci siamo spesso ispirati ai film di Antonioni, le cui immagini sono così potenti nel permeare i temi della storia.

Ed Lachman e Cate Blanchett
(Intervista condotta da Simone Tarditi presso l’Hotel Principi di Piemonte in data 22/11/2016. Un ringraziamento particolare a Flavia Corsano e allo staff del Torino Film Festival che hanno reso possibile questo incontro)
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