TFF34: Kate plays Christine, si muore sempre due volte

TFF34: Kate plays Christine, si muore sempre due volte

November 24, 2016 0 By Simone Tarditi

Cos’ha spinto Christine Chubbuck, una giornalista ventinovenne, a suicidarsi in diretta nel 1974? Perché ha chiesto all’emittente televisiva che quel pomeriggio il suo programma venisse registrato? Ecco gli interrogativi che hanno spinto alla realizzazione di Kate plays Christine, film-documentario presentato alla 34ma edizione del Torino Film Festival. Questo episodio della storia della televisione ha spinto Sidney Lumet a girare Network / Quinto potere (1976), che tra le altre cose è il film preferito di Paul Thomas Anderson, ma cerchiamo di non perderci per strada.

Ci sono due punti di forza da individuare: la ricerca di chi era veramente Christine Chubbuck, o per lo meno –considerata la sua figura enigmatica- l’immagine che di sé ha dato al mondo a lei circostante, e il lavoro dell’attrice nel nuotare e nell’annaspare nella psiche della conduttrice televisiva, finendo con lo sprofondare in essa. Andare alla riscoperta di chi fosse Christine presuppone andare nei luoghi in cui ha vissuto, incontrare le persone ancora in vita che l’hanno conosciuta, recuperare i microfilm con gli articoli di giornale sulla sua morte, leggere i suoi diari, consultare testi sul suicidio (il lavoro di Émile Durkheim su tutti), chiedere pareri a psicologi, ma soprattutto cercare di rivivere gli eventi mentali che possono averla spinta all’atto estremo di togliersi la vita.

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Questa ricerca coinvolge in primis il regista Robert Green (già autore di Queen of Earth, che affrontava il tema della depressione in maniera più radicale) e in seconda luogo l’attrice Kate Lyn Sheil, che nel voler interpretare Christine nella maniera più realistica possibile sembra finire con l’essere divorata dagli spettri di una storia che forse non dev’essere rievocata. È altamente probabile che sia solo arte di far cinema e non un’esperienza davvero pericolosa e dolorosa, ma le suggestioni rimangono. Il pubblico vuole solo vedere sangue e distruzione sugli schermi? Siamo diventati l’esemplificazione tecnologizzata del panem et circenses degli antichi romani? Siamo attratti dalle immagini di morte sugli schermi come nel Medioevo lo erano gli spettatori di roghi di streghe? Abbiamo bisogno di vedere persone che perdono la vita con modalità violente per cullarci del nostro essere ancora vivi? Il finale del film-documentario sembra suggerire le sue risposte.

Ad ogni modo, per quanto riguarda l’atto di vestire i panni di qualcun altro, Kate plays Christine sembra mettersi sullo stesso piano di Interior. Leather. Bar (James Franco e Travis Mathews, 2013) quando viene mostrato quel che accade a chi recita nel momento in cui la parte che sta interpretando sta talmente sfuggendo al suo controllo da provocare una crisi e una scissione.

Durante Kate plays Christine, l’interrogativo maggiore, sia per chi il film lo sta girando sia per chi lo sta visionando, rimane tuttavia uno solo: esiste ancora la registrazione video del suicidio in diretta di Christine Chubbuck? Forse sì, nella cassaforte di qualcuno, un nastro che anno dopo anno si sta deteriorando. Circolano voci che quella registrazione sia stata conservata da Robert Nelson, proprietario dell’emittente tv presso cui lavorava la Chubbuck, e che poi alla sua morte sia passata nelle mani della vedova, che ha minacciato di gettarla in mare aperto, un po’ come erano soliti fare alcuni produttori cinematografici negli anni della transizione dal muto al sonoro con le pellicole che non potevano essere più mostrate in giro perché nessuno voleva più vederle. Si crea così un paradossale ponte temporale lungo quasi cento anni tra chi oggi vorrebbe vedere quel nastro e l’età dell’oro di Hollywood, patria della finzione sullo schermo. Il fatto che in Kate plays Christine si dica, anche se mancano conferme, che Mary Pickford e Douglas Fairbanks erano antenati di Christine Chubbuck, ha in sé qualcosa di sconvolgente anche in virtù del fatto che questa via non viene percorsa, forse per non mettersi ancora di più in pericolo.

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L’impossibilità di chiarificare i motivi di questo suicidio, perché nessuno è stato e sarà mai nella sua mente, si accompagna benissimo al fatto che Kate plays Christine sta facendo il giro dei festival (dal Sundance al TFF) in coppia con Christine, lungometraggio di Antonio Campos con Rebecca Hall, che narra le medesime vicende sugli ultimi giorni della Chubbuck. Una medesima storia un po’ alla Joyce Carol Oates, due modalità differenti di affrontarla, zero risposte definitive perché non è possibile fornirne. Detto ciò, siamo di fronte ad un tipo di cinema che inquieta non poco. Altro che molti horror della sezione After Hours.

Si muore sempre due volte, la prima quando si lascia questo mondo e la seconda quando viene pronunciato il nostro nome per l’ultima volta. Dentro ad un enigma senza risposte e dalle implicazioni ancora non quantificabile, il nome di Christine Chubbuck continua a echeggiare.

Simone Tarditi