
Amour di Michael Haneke: sull’estetica del Male
January 19, 2017La forma con cui Michael Haneke rappresenta il male è sempre esperienza traumatica, che mai concede il beneficio dell’assuefazione, ed agisce con un meccanismo assai sorprendente. Allo spettatore desensibilizzato alla violenza, più spesso fisica e prorompente, propone invece un contesto in cui agisce per sottrazione: il male avviene quasi sempre fuori campo, lasciando più spesso spazio al vuoto, alle conseguenze di quel male, costringendo a interrogarci sulle ragioni, sui meccanismi, ad esperirne una cognizione dolorosa, spesso altrettanto illogica, banale (Il nastro bianco). Eppure, si tratta di un male che interviene spesso senza causa violenta, quasi un’escrescenza della natura umana, tanto della dimensione psichica (e allora certamente dobbiamo accettare senza compromessi, senza possibilità di evasione, la violenza annoiata e borghese di Funny Games), quanto nella dimensione carnale, fisiopatologica, subcellulare di Amour.
Ed è altrettanto singolare che il male irrompa nella dimensione dell’amore in maniera tanto subdola, costringendola a problematizzare il sentimento, scomporlo in parti minute per osservarne le ombre, convivere con l’idea, controversa, che l’atto d’amore più grande possa anche coincidere con la morte.
Si parla di un’anziana coppia di musicisti, colti e sereni in una dimensione borghese e in un’abitazione enorme, pregna del loro antico sentimento, ben presto l’abisso in cui si consumerà il dramma. La donna, Anne (Emmanuele Riva), viene colpita da ictus e il marito Georges (Jean-Louis Trintignant) assiste impotente al declino della moglie, che perde la motricità degli arti, l’eloquio, l’autosufficienza. La macchina da presa rimane ostinatamente immobile, a sostenere eterni piani sequenza in cui la quotidianità un tempo leggiadra si trasforma in un incubo a cui è impossibile porre rimedio, per la insindacabilità della malattia che, a dispetto delle sanguinolente carneficine che occupano gli schermi di mezzo mondo, rimane la forma più crudele di estrinsecazione del male. C’è una sorta di necessario sadismo nel mettere in scena il tentativo di arginare l’afasia della donna facendole cantare una filastrocca che inneggia alla vita (“Sur le pont d’Avignon, l’on y danse, l’on y dance”), suscitando una sorta di insostenibile senso di ribellione alla mancanza di giustizia del mondo, eppure la camera rimane immobile, perché se non vi è giustizia nel ferino meccanicismo, allora non v’è motivo di distogliere lo sguardo dalla presa di coscienza della cosa.
Il realismo del quotidiano si compone di lunghissimi silenzi, di un mondo anonimo più spesso raccontato da terze parti che accedono nella casa della coppia, parlando con voce atona di insulse vite patinate o di ancor più insulse parole di conforto. Nello sguardo talvolta implorante di Georges si condensano costanti rimandi mnesici ad una bellezza lontana, di cui una piccola parte viene concessa allo spettatore tramite sprazzi d’allucinazione visiva (e in questo Haneke, mantenendo una freddezza chirurgica, appare coerente con l’idea di partenza, mostrando sempre meno, meno dell’essenziale, lasciando che la bellezza venga agognata, al pari del continuo, tormentoso interrogarci sul male). Il lento, masochistico scivolamento verso una messa in scena esasperata del declino biologico della donna risuona tra le mura della casa, divenuta enorme, blindata alle regole del mondo esterno, che comincia a procedere verso logiche nuove, inquietanti, e che proprio in virtù della staticità delle sequenze emerge come un urlo disperato: il peso della malattia diviene insostenibile e Georges, impassibile salvo lo sguardo, divenuto nerissimo e lucido, emanazione diretta di quello del regista, decide di ammazzare la moglie. L’eutanasia diventa il controverso approdo delle logiche generate all’interno della casa, scritte sulle pagine di un’intera vita passata assieme.
Per Haneke l’amore non sembra essere dissimile da altri sentimenti ancestrali, accomunati dall’appartenenza ad un essere umano privo dell’educazione o indottrinamento imposti dal costume. Nella Isabelle Huppert de La pianista la maschera borghese calmierava e sopprimeva le pulsioni più recondite ed inammissibili, secondo una logica perbenistica che appunto appartiene, per definizione, alla borghesia (con una potenza straordinaria, riproposta nell’ultimo Verhoeven, uno dei titoli migliori dell’anno passato, sempre con la Huppert protagonista).
L’universo del decoro, della compostezza, dell’equilibrio, di una certa ostentata opulenza rappresentano sempre, invariabilmente, una patina indistinguibile che cosparge le esistenze, che Haneke ha il coraggio di scrostare per avviare una minuziosa, dolorosa introspezione. In questo modo, nell’anziana coppia la malattia sveste con calma la sobrietà dell’uomo addomesticato, per consentire l’accesso ad un’altra dimensione della natura umana, quella dell’amore, che lungi dall’essere pregna di romanticismo e sperticate edulcorazioni, riesce ad essere feroce e, senza lo spauracchio della dignità, finalmente sincero.
Laddove Anne rifiuta di guardare nello specchio il decadimento della carne, ancorata all’idea di dignità, Georges comprende che il mantenimento della dignità non può esistere senza il prezzo della morte. E come nella logica delle tragedie dell’antichità classica, il condannato è chi rimane in vita; il suo atto d’amore apre le porte alla definitiva condanna: in una solitudine senza ritorno, col germe della follia ad accompagnarlo per il resto dei giorni, Georges fugge via con l’allucinazione della moglie, lasciando intendere come tutto ciò che appartiene alla sfera emotiva dell’uomo, se lasciata libera di esprimere la propria potenza, conduce inevitabilmente a distruzione (Il nastro bianco, Funny Games, La pianista).
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