Animal Kingdom, nessuna innocenza possibile

Animal Kingdom, nessuna innocenza possibile

March 21, 2017 0 By Angelo Armandi

Animal Kingdom, di David Michod, dischiude la fenomenologia di un mondo senza leggi, in cui ci si muove secondo natura, in un territorio, quello australiano, che diviene la dimora del regno animale, dove l’uomo smarrisce la bussola della morale e persegue invariabilmente i dettami del proprio istinto.
Il mondo criminale e quello della giustizia, di solito complementari, in questa dimensione si sovrappongono, diventando il medesimo tessuto del regno animale, seguendo le proprie logiche, incuranti dei mezzi, sino al raggiungimento di un fine: l’arricchimento personale dei criminali, più facilmente comprensibile, e il rispetto delle leggi, sicuramente più controverso e propulsore dell’intera narrazione.
A David Michod interessa una rappresentazione per nulla roboante, verbosa o appariscente, quanto piuttosto silenziosa, dilatata nel tempo, millimetrica, gravata talvolta dalla piattezza del quotidiano, che tuttavia non rinuncia all’ossessione per la carnalità, intesa come elemento animale, come eviscerazione delle dinamiche preda-predatore, lasciando che la morte appaia nell’inquadratura in maniera netta, senza preamboli, senza grosse tensioni emotive, con un improvviso aumento del missaggio sonoro, come appendice naturale del mondo animale, e funga da potente allegoria per lo spettatore, sconvolto dalla noncuranza con cui il male viene operato, come a voler comunicare che tale sconvolgimento sia del tutto ingiustificato, poiché è tanto naturale che il leone insegua gazzella fino ad ammazzarla, quanto lo è un uomo in divisa, che non riuscendo a far rispettare la legge, prende di mira i criminali e li ammazza uno ad uno, a volte proprio nel medesimo scenario naturalistico di una distesa erbosa, oppure nel più comune, e inquietante, universo metropolitano. Di sottofondo, la potente colonna sonora di Antony Partos, straziante, malinconica, elemento lucidamente umano, la sola a ricordarci l’umanità delle belve che si muovono tra le inquadrature, nel persistente homo homini lupus/canis canem edit, e tra le note anche un accenno disperato alla moralità perduta.

Tra questi due mondi, lo sguardo è quello del giovane Josh Cody (James Frencheville), cucciolo amorale che osserva il mondo dall’immobilità della sua inettitudine/fragilità/insicurezza alla ricerca di un senso, sperando di discriminare il giusto dallo sbaglio, il bene dal male, la lealtà dalla criminalità. Josh va a vivere dalla nonna Janine (Jacki Weaver), al vertice di una famiglia matriarcale organizzata gerarchicamente, una donna egoista e spietata, dolcissima all’apparenza, e legata in maniera patologica ai suoi figli, piccoli criminali che vivono di rapine, tra cui brilla per instabilità di mente Andrew “Pope” (Ben Mendelsohn, tra i protagonisti di Killing them softly, un film per parecchi aspetti affine a questo, se non altro nella messa in scena, al tempo stesso asciutta eppure carica di spiccato patetismo). In questo universo di droga, sessismo, omertà mafiosa, basato sullo sproloquio moraleggiante di certi valori di cui si gloria la malavita, l’imberbe Josh conosce la spregiudicatezza del mondo criminale. Nell’evolversi delle vicende, Josh conosce anche un’altra fetta di mondo, quella tanto cara ad un inossidabile filone cinematografico, dal Serpico di Lumet al Braccio violento della legge di Friedkin, in cui i poliziotti, frustrati di non avere prove a sufficienza per incriminare i suoi zii, li impallinano uno ad uno, replicando al crimine col crimine, e mettendo in moto una (prevedibile) sequela di vendette sanguinarie, perpetuando la violenza e inserendosi armonicamente nel regno animale, che avrebbero dovuto fronteggiare con l’autorità dello Stato di Diritto. Ammettendo l’inefficacia della legge, si specchiano nella barbarie.
A cercare di ristabilire un ordine nella fauna interviene il detective Nathan Leckie (Guy Pierce), che attua una pur debole ribellione al sistema corrotto, cercando di indirizzare (e braccare) Josh verso le scelte più corrette, mentendogli sull’esistenza di una demarcazione tra i buoni e i cattivi, e in sostanza gettandolo in pasto ai leoni col distintivo. Dirà a Josh, in quella che probabilmente è la scena madre del film, tornando ossessivamente all’immagine degli animali e smascherando la sua rassegnazione/complicità alla dimensione selvaggia in cui la sola regola dominante è il meccanicismo darwiniano:

“Ogni cosa conosce il suo posto e lo schema delle cose. Ogni cosa sta in ordine da qualche parte. Le cose sopravvivono perché sono forti, e tutto trova una spiegazione. Ma non tutto sopravvive perché è forte, ci sono creature deboli, ma sopravvivono perché sono protette da quelle forti, per varie ragioni. Tu forse credi che per via della tua famiglia sei una creatura forte, ma invece tu sei una di quelle deboli. Non è una colpa, tu sei debole perché sei giovane, ma sei sopravvissuto perché sei stato protetto dai forti. Ma non sono più forti, e non sono più in grado di proteggerti.”

Ciò che propone Leckie è un diverso tipo di omertà, che appare abbellita dall’esercizio della legge, e condotta con sconcertante naturalezza: l’universo in cui si muovono le vicende si incarta nella propria anarchia, ed implode senza che vi sia possibilità di redenzione. Quello che Josh arriva a comprendere, pur nella reiterata amimia del suo volto, è che non esiste innocenza. Se è mai esistita, è morta sul divano in cui giaceva la madre in overdose, nell’universo ovattato in cui era vissuto all’incipit del film. Da allora in poi, con lo svezzamento nel mondo, ha appreso che vivono solo logiche pretestuose atte a giustificare i propri interessi, in maniera più o meno sottile, ma di sicuro non vi è parvenza di innocenza.

Tutta l’opera, in questo modo, può configurarsi come un percorso di crescita, di piccoli tentativi andati a male di legittimare le proprie azioni, fino alla maturità raggiunta nel finale, in cui Josh, con ritrovata lucidità, guadagna il proprio posto nel regno animale.

Angelo Armandi