Born to Be Blue e il mito di Chet Baker

Born to Be Blue e il mito di Chet Baker

April 10, 2017 0 By Simone Tarditi

Il James Dean del Jazz. Il principe del Cool. Colui che ha inventato lo swing della West Coast. Un drogato. Un bugiardo. Una disgrazia per la sua famiglia. I tanti epiteti che hanno accompagnato Chet Baker non hanno fatto altro che accrescerne la leggenda nel corso dei decenni, contribuendo a stratificare, aneddoto dopo aneddoto, l’immagine mitica e intramontabile di uno dei jazzisti più famosi e musicalmente più amati di sempre. Seguendo coscientemente o meno le orme di Charlie “Bird” Parker, autentico dio del Jazz, che conosce e con cui suona nel 1952, Chet Baker sprofonda nell’eroina nel 1957 (intanto Parker, famoso eroinomane fin dalla giovanissima età, ha già esalato l’ultimo respiro nel 1955) ed è l’inizio di un lentissimo decadimento fisico, ma non artistico, che lo accompagna per altri trent’anni.

Born to Be Blue sembra voler proseguire questa collezione di storie su Chet Baker, inglobando alcune di esse, modificandole, riarrangiandole e creandone di nuove perché è il modo migliore, forse l’unico, per parlare ancora di una delle figure chiave della storia del jazz: resuscitare un musicista leggendario e riseppellirlo con le fattezze di un uomo.

Lo stesso film nasce da esigenze e background diversi. Ethan Hawke, che interpreta il trombettista rivestendone i panni alla perfezione, ha detto che voleva realizzare un film su Chet Baker da circa quindici-venti anni e che a un certo punto lui e l’amico regista Richard Linklater avevano in cantiere uno speciale biopic tutto incentrato sull’esatto giorno in cui il jazzista aveva provato l’eroina per la prima volta. Pare che nessun produttore fosse interessato ad un progetto di questo genere e col tempo è stato abbandonato. Con una nuova sceneggiatura e con il regista canadese Robert Budreau dietro la macchina da presa, Born to Be Blue vede finalmente la luce nel 2015. Una nota per nulla marginale: nel 2009, Budreau gira un cortometraggio intitolato The Deaths of Chet Baker in cui indaga la misteriosa morte del trombettista (fu suicidio? Una distrazione? Un omicidio involontario? Chi può dirlo. Altra sedimentazione di miti e leggende).

Ad ogni modo, in Born to Be Blue si assiste alla caduta e alla resurrezione artistica di Chet Baker in quello che è per il musicista uno dei periodi più difficili. L’arresto in Italia, il film su di lui in cui Chet interpreta una versione di se stesso, il brutale pestaggio subito e la faticosa riabilitazione per poter tornare a suonare, l’amore di una donna a metà strada tra moglie e madre, l’uscita dal tunnel della droga e il ritorno a fare quello che si ama di più. Nessuno sembra sopportarlo, non i suoi vecchi amici che, esasperati, l’hanno abbandonato né i colleghi discografici né suo padre (interpretato da Stephen McHattie, che in The Deaths of Chet Baker si era calato proprio nella parte di Chet Baker). Il musicista risponde solo ai suoi bisogni, a costo di farsi piazza pulita attorno, e la sua è una vita fatta di scale ascendenti e discendenti.

Nel fare questo, non c’è la pretesa di raccontare una qualche verità, soprattutto nel rapporto che Chet instaura con le persone che gli stanno attorno. Le biografie si contraddicono le une con le altre e le testimonianze di chi gli è stato attorno sembrano voler gravitare attorno proprio alle persone che si fanno paladini della loro versione dei fatti. Alla luce di tutto ciò, quella di Born to Be Blue sembra la scelta saggia di chi decide di non costruire castelli di sabbia destinati ad essere spazzati via dalla prima marea. Le impalcature biografiche diventano un mero sostegno per delineare un ritratto forse non onesto, ma sincero, sul protagonista della storia.

Si può intuire o, se non altro, ipotizzare qualcosa di più sugli intenti del regista andando a rispolverare il vero documentario su Chet Baker: Let’s Get Lost (Bruce Weber, 1988), proiettato per la prima volta nell’anno della morte del trombettista, avvenuta pochi mesi prima ad Amsterdam, dopo un volo di due piani da un hotel. Due ore di narrazione in cui vengono abbozzati in maniera sintetica gli episodi cronologicamente più significativi dell’esistenza del jazzista, che diventa cantore della sua stessa vita, raccontata tra una sigaretta e l’altra mentre il fumo avvolge il volto solcato da profonde rughe e prosciugato dalla droga (“L’eroina ti succhia via il calcio come un vampiro”, dice il personaggio di Hope Harlingen in Inherent Vice).

Per il suo Born to Be Blue, Robert Budreau recupera molte delle storie narrate in prima persona da Baker in Let’s Get Lost, le ritaglia con una forma nuova, le cuce insieme e v’inserisce una love story come collante. E il risultato è ottimo perché funzionale allo scopo più semplice: fornire un ritratto quanto più credibile di Chet Baker, a prescindere da quanto reali siano gli eventi narrati perché l’importante è che siano verisimili.

Un giorno, durante l’estate del ’52, trovai un telegramma sotto la porta di casa. Me lo mandava Dick Bock, mi pare, e diceva che Charlie Parker stava facendo audizioni ai trombettisti per alcune date nei club della California. L’audizione avrebbe avuto luogo quel giorno stesso alle tre al Tiffany Club. Mi precipitai, arrivando un po’ in ritardo, e sentii Bird che improvvisava su un pezzo con qualche trombettista. Facendomi largo a spintoni nell’oscurità del club, riuscii a intravedere Bird sul palcoscenico che volava su un blues. Mi sedetti per un paio di minuti, e mi guardai attorno. Riconobbi molti trombettisti e un sacco di altra gente che conoscevo che aveva saputo in qualche modo che Bird era lì. Vidi qualcuno salire sul palco e dire qualcosa a Bird. Mi sentii a disagio e molto nervoso quando chiese alla folla se io fossi nel club e se avessi voluto salire a suonare qualcosa con lui. Aveva passato in rassegna tutti quegli altri ragazzi, alcuni dei quali avevano molta più esperienza di me e sapevano leggere qualsiasi cosa gli mettessero davanti. Suonammo due pezzi. Il primo era “The Song Is You”, e poi una canzone blues scritta da Bird e intitolata “Cheryl”, in tonalità di sol, che fortunatamente conoscevo. Alla fine di “Cheryl”, lui annunciò che l’audizione era finita, ringraziò tutti quanti per essere venuti, e disse che avrebbe assunto me per le serate.

(Chet Baker, Come se avessi le ali – Le memorie perdute, Roma, Edizioni minimum fax, 2009)

Simone Tarditi
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