Il racconto delle opposizioni: Il Cliente di Asghar Farhadi

Il racconto delle opposizioni: Il Cliente di Asghar Farhadi

May 10, 2017 0 By Angelo Armandi

Il Cliente (o per meglio dire “il venditore”, dal titolo originale Forushande), regia di Asghar Farhadi. Premio alla migliore sceneggiatura e miglior attore a Cannes 2016. Anche Oscar 2017 al miglior film straniero, ma di questo s’è abbondantemente parlato, soprattutto in relazione alla polemica sulla chiusura delle frontiere indetta dal Presidente Trump, che è questione politica e consente di girare attorno al film, ma di non sfiorarlo neanche.

Invece, in virtù della premiazione di Cannes, occorrerebbe ripartire dalla scrittura del film, che è l’elemento chiave sfruttato per operare un disvelamento della realtà, percorrendo un binario inizialmente parallelo: la coppia protagonista del film, Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti), sta preparando la rappresentazione teatrale di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, e le sequenze della pièce sono interposte alle vicende narrate. La storia del commesso viaggiatore sottolinea l’inevitabile decadenza del sogno americano, in cui il risveglio dall’illusione coincide emblematicamente col suicidio del commesso stesso, e al di là di alcuni palesi riferimenti, tra l’altro già narrati e sviscerati in altre opere, il legame con la storia di Emad e Rana appare di natura più squisitamente allegorica e si svincola dai singoli corpi per analizzare l’assetto di un’intera società.

Il sogno americano è giunto a contaminare anche la società iraniana, a partire dal processo di modernizzazione avviato dalla dinastia dei Pahlavi, eppure questo processo, che coincide con un’idea edulcorata di occidentalizzazione ed era mirato al superamento dell’integralismo religioso in favore del progresso sociale, non sembra essere stato pienamente interiorizzato (da cui il ritorno ad una politica di fondamentalismo religioso promossa dall’ayatollah Khomeyni).

Ciò che in effetti emerge dal film è la contraddizione di una realtà piccolo borghese abbastanza affermata, di cui fa parte la coppia, con Emad professore di letteratura dalla didattica improntata al progressismo, in cui tuttavia permane l’antico sistema di valori, selvaggio, che prosegue nel sottobosco della modernizzazione, mantenendo, di fatto, delle radici ancora inestirpabili, fatte di istinti e rigidi schemi culturali e osservanza dei precetti religiosi.

L’architettura del teatro in cui si svolgono le prove della pièce, la scenografia minimalista, la cura meticolosa dedicata ai modesti costumi: ogni elemento lavora in sottrazione, a storcere sin dalle fondamenta fisiche tutto quello che verrà progressivamente depauperato nelle parole della recita. Così come nei dialoghi tra il commesso viaggiatore e la sua famiglia si riacquista coscienza di sé col favore del disincanto, anche nella vicenda narrata nel film si opera una dolorosa introspezione partendo dall’evento propulsore, l’aggressione/violenza subita da Rana nella nuova casa in cui la coppia si è trasferita, da parte di tale cliente/venditore che la scambia per la precedente locataria, una donna dai costumi ambigui, come si ripete spesso nel film senza osare definire la cosa con maggiori particolari (un primo esempio di estraneità alle logiche occidentali, un rispettoso silenzio nel parlare di situazioni oscene che la nostra società ha smarrito chissà quando).

Emad, portavoce dell’intera società iraniana (parrebbe dire Farhadi), ha cucito addosso un modo di stare al mondo e di concepire la vita che gli sono stati forzosamente inculcati, ma le cui basi sono vacillanti, al pari di quelle dell’edificio che crolla all’inizio del film, costringendo i protagonisti a trasferirsi in un’altra abitazione. L’idea della morale, di una morale moderna lontana da quella vecchia ed autentica, viene esercitata in maniera macchinosa, per nulla liquida, artefatta, risultante in un perbenismo che è forzosa imitazione della nostra ipocrisia. Attraverso i dialoghi (la scrittura!) emerge quell’antica cultura, come nel litigio tra il protagonista e il proprietario della nuova abitazione, condotto pacatamente attorno a rivendicazioni di rispetto un tantino aliene, oppure nel rifiuto a consumare la cena non appena la coppia scopre che è stata comprata coi soldi lasciati per sbaglio dall’aggressore nella loro casa.

Anche l’immagine ha un potere fortemente significante, sempre calcolata al millimetro, sempre attenta a circondare i volti nei primi piani, a soffocarli, a impedire loro di fuggire dall’inquadratura così come quei corpi sono intrappolati in una realtà che non comprendono, e talvolta anche l’immagine ci regala elementi di ribellione all’occidente, di ricordo delle vecchie architetture sociali, come nello sguardo basso della donna, del suo mancato saluto con la mano, della sua sottomissione all’uomo.

Emad viene quindi spinto nei meandri della coscienza, desideroso di giustizia, incapace di comprendere, all’inizio, quanto quella giustizia sia in verità una vendetta addolcita, e il suo essere così placido, si riappropria con calma della natura di “maschio” con la quale è cresciuto. Diventa sempre più difficile mantenere l’integrità agli occhi dei vicini, degli amici, della moglie Rana (che possiede una compostezza nel dolore che un po’ stravolge, abituati alla manifestazione esasperata e roboante della sofferenza), e la pièce diventa invece più vicina, più sincera, al punto che la disillusione del commesso viaggiatore coincide con quella di Emad, nel momento della riappropriazione finale della pura visceralità, che è ritrovata coscienza di se stessi.

Rana, che nella forma è ancora dignitosamente vittima dei vecchi pregiudizi religiosi, riesce, nella coscienza al contrario evoluta, a perdonare l’aggressore. Emad, fino in fondo, porta avanti la tesi di Farhadi e pretende che egli venga umiliato davanti alla propria famiglia per l’atto compiuto, in modo che il disonore rovini la sua immagine in modo indelebile. Un’idea di vendetta un po’ atipica, lontana dalle nostre concezioni, che lascia le aspettative di sangue e clamore sospese in una patina di incredulità.

E la sottesa estraneità del film al nostro modo di intendere le persone e i valori, dopo una lunga simulazione, disvela la realtà delle cose: una lunga, lunghissima sequenza finale, pacatissima, smorzata nei toni e imprigionata nell’inquadratura claustrofobica, ed infine troncata, al punto che se ne smarrisce un po’ il senso, come nel suicidio del commesso viaggiatore. Poi i titoli di coda, e la sensazione tutta occidentale che ci era dovuto qualcosa di più.

Angelo Armandi